martedì 27 ottobre 2020

omosessualità

 

Pier Paolo Pasolini

Tutti i giorni sono testimone della maggior fatica di vivere cui sono sottoposti, nella nostra società, i miei amici e pazienti omosessuali, rispetto agli eterosessuali; credo fermamente che ciò non sia giusto.
Provate a immaginare come sarebbe la vita degli eterosessuali se la società fosse prevalentemente omosessuale e noi etero fossimo considerati una minoranza di malati e perversi, guardati con disprezzo. 
Non potremmo corteggiarci, tenerci per mano o darci un bacio in pubblico, ci sentiremmo giudicati in quanto diversi, sbagliati,  malati, pericolosi per la morale pubblica, da tenere lontani dai bambini. Credo che dentro di noi crescerebbe molta rabbia per questa violenza umiliante che ci sentiremmo addosso tutti i giorni.

Spesso sono testimone del desiderio degli omosessuali di avere un duraturo rapporto d'amore, di costruirsi una famiglia, esattamente come gli eterosessuali.

L'omosessualità non è una malattia né una perversione, è semplicemente la preferenza di una persona del proprio sesso anziché dell'altro per fare tutte quelle cose che tutti facciamo quando amiamo qualcuno: innamorarsi, scambiarsi tenerezze, fare sesso, convivere, farsi una famiglia propria diversa da quella di origine.

Dovremmo veramente indignarci e vergognarci per questa ingiustizia, per il fatto che costringiamo delle persone che hanno una inclinazione affettiva diversa dalla nostra a vergognarsi, a sentirsi colpevoli  e umiliati per essere ciò che sentono di essere.

La recente apertura di Papa Francesco che ha detto:

"Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo." 

è da accogliere con gioia, sperando che anche all'interno della Chiesa gli omosessuali non siano più emarginati, colpevolizzati od esclusi.

   


 

giovedì 22 ottobre 2020

quello che deve starci a cuore...


Vi propongo un brano tratto dal libro "Le piccole virtù" di Natalia Ginzburg. L'ho trovato sul blog Mari da solcare di Maria D'Asaro, che ringrazio sentitamente. Lo posto qui perchè lo scritto della Ginzburg corrisponde esattamente a ciò che penso sull'argomento. Eccovi il testo:

 Quello che deve starci a cuore, nell'educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l'amore alla vita. (...)
E che cos'è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita? Noi dobbiamo aspettare, accanto a lui, che la sua vocazione si svegli, e prenda corpo. Il suo atteggiamento può assomigliare a quello della talpa o della lucertola, che se ne sta immobile, fingendosi morta: ma in realtà fiuta e spia la traccia dell'insetto, sul quale si getterà con un balzo. Accanto a lui, ma in silenzio e un poco in disparte, noi dobbiamo aspettare lo scatto del suo spirito.
Non dobbiamo pretendere nulla: non dobbiamo chiedere o sperare che sia un genio, un artista, un eroe o un santo; eppure dobbiamo essere disposti a tutto; la nostra attesa e la nostra pazienza deve contenere la possibilità del più alto e del più modesto destino. (...)
Una vocazione è l'unica vera salute e ricchezza dell'uomo. Quali possibilità abbiamo noi di svegliare e stimolare, nei nostri figli, la nascita e lo sviluppo di una vocazione? Non ne abbiamo molte: e tuttavia ne abbiamo forse qualcuna. La nascita e lo sviluppo di una vocazione richiede spazio: spazio e silenzio: il libero silenzio dello spazio. Il rapporto che intercorre fra noi e i nostri figli, dev'essere uno scambio vivo di pensieri e di sentimenti, e tuttavia deve comprendere anche profonde zone di silenzio; dev'essere un rapporto intimo, e tuttavia non mescolarsi violentemente alla loro intimità; dev'essere un giusto equilibrio fra silenzio e parole.
Noi dobbiamo essere importanti, per i nostri figli, e tuttavia non troppo importanti: dobbiamo piacergli un poco, e tuttavia non piacergli troppo: perchè non gli salti in testa di diventare identici a noi, di copiarci nel mestiere che facciamo, di cercare, nei compagni che si scelgono per la vita, la nostra immagine. (...)
E dobbiamo essere là per soccorso, se un soccorso sia necessario; essi debbono sapere che non ci appartengono, ma noi sì apparteniamo a loro, sempre disponibili, presenti nella stanza vicina, pronti a rispondere come sappiamo ad ogni interrogazione possibile, ad ogni richiesta.
E se abbiamo una vocazione noi stessi, se non l'abbiamo tradita, se abbiamo continuato attraverso gli anni ad amarla, a servirla con passione, possiamo tener lontano dal nostro cuore, nell'amore che portiamo ai nostri figli, il senso della proprietà.
Se invece una vocazione non l'abbiamo, o se l'abbiamo abbandonata e tradita, per cinismo o per paura di vivere, o per un malinteso amor paterno, o per qualche piccola virtù che si è installata in noi, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago al tronco dell'albero, pretendiamo vivacemente da loro che ci restituiscano tutto quanto gli abbiamo dato, che siano assolutamente e senza scampo quali noi li vogliamo, che ottengano dalla vita tutto quanto a noi è mancato; finiamo per chiedere a loro tutto quanto può darci soltanto la nostra vocazione stessa; vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se, per averli una volta procreati, potessimo continuare a procrearli lungo la vita intera. Vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se si trattasse non di esseri umani, ma di opera dello spirito.
Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l'abbiamo rinnegata e tradita, allora possiamo  lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dell'ombra e dello spazio che richiede il germoglio d'una vocazione, il germoglio di un essere. Questa è forse l'unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perchè l'amore alla vita genera amore alla vita.
                                                         Natalia Ginzburg  


giovedì 15 ottobre 2020

simboli: la cucina










La cucina è una metafora della vita perchè è il regno delle trasformazioni: in cucina il freddo si trasforma in caldo, il crudo in cotto, il duro in tenero, il secco in morbido, l'insipido in saporito. 

Elementi che da soli sarebbero cattivi e immangiabili come il pepe, il peperoncino e le spezie acquistano senso se usati nella giusta misura, rendendo gustose zuppe e minestroni.

In cucina impariamo che ogni piatto risulta sempre diverso dagli altri, mentre i cibi prodotti industrialmente hanno sempre lo stesso sapore. Inoltre nessun piatto riesce sempre perfettamente e a ciò bisogna abituarsi, proprio come nella vita.
Chiunque ha avuto a che fare coi bambini piccoli sa che i giochi acquistati nei negozi sono per loro molto meno interessanti della possibilità di stare in cucina a paciugare con farina, acqua, latte e uova.
In cucina si impara a prendere le cose così come vengono e a cercare di fare meglio la prossima volta, imparando dai propri errori.
Attorno ai fornelli si possono osservare le diverse caratteristiche di personalità: il preciso, il meticoloso, il creativo, l'ansioso, il tranquillo, l'egocentrico, lo sbadato...


Il cibo ha un valore simbolico: noi ci nutriamo di cibi materiali, ma anche di affetti e di alimenti per lo spirito. Quasi tutte le religioni vietano alcuni cibi sempre o solo in certi giorni dell'anno e conferiscono valore di simbolo ad altri cibi assunti nell'ambito di cerimonie rituali.  
E' molto importante il modo con cui viene offerto un alimento, il sentimento e la cura con cui viene preparato. E' molto facile rendersi conto se un cibo è stato cucinato in modo sciatto e banale o, al contrario con cura e attenzione.
Cucinare bene, come vivere bene, è un'arte. E qualche volta bisognerebbe dedicarsi un po' di tempo per prepararsi con cura qualche buon piatto anche se nessuno li condividerà con noi.  
E in ogni caso, come diceva ironicamente Irene Frain:"Per quanto si sorvegli la vita come il latte sul fuoco, appena ti distrai un attimo, uscirà subito dallo stampo".

lunedì 5 ottobre 2020

adolescenze prolungate


Parlando con alcune pazienti di 30-40 anni che ho visto nel corso degli anni, mi è capitato spesso di trovarmi di fronte a donne attive, intelligenti, preparate, brave lavoratrici, piene di buone qualità, colte, alcune delle quali, però, per quanto riguardava la loro vita sentimentale, sembravano delle adolescenti. 
Venivano da me perchè la fine dell'età fertile si avvicinava e non erano preparate a prendere una decisione sul loro futuro affettivo: farsi una famiglia? avere un figlio?
Generalmente non volevano correre il rischio di soffrire per amore, quindi vivevano cercando di divertirsi, portando avanti rapporti non vincolanti e trascorrendo il loro tempo libero facendo cose piacevoli. Mi dicevano che era troppo impegnativo per loro immaginare di iniziare una relazione importante, però non erano sicure che rinunciarvi sarebbe stata la scelta migliore.
Quasi sempre non erano donne del tutto indipendenti (anche se esteriormente lo sembravano) perchè vivevano ancora come figlie: sentivano il desiderio di essere libere da responsabilità e fatiche e perciò non sentivano la necessità di diventare veramente del tutto autonome rispetto ai genitori. 
Spesso vivevano da sole, ma i genitori venivano utilizzati per preparare loro  il cibo, per lavare e stirare i loro abiti, per pulire la loro casa e per fare lavoretti di ogni tipo, così che loro potessero avere tutto il tempo libero dal lavoro da poter dedicare ai loro piaceri, esattamente come abitualmente fa una figlia che abita insieme ai genitori.
Per inciso, si comportano così anche tanti trentenni o quarantenni maschi, i quali, peraltro, hanno più tempo delle donne per fare delle scelte importanti di vita e difficilmente hanno il coraggio di guardarsi dentro e magari di farsi aiutare da qualcuno a diventare veramente indipendenti.
Dell'immaturità dei maschi si parla parecchio, di quella delle ragazze si parla meno. A parte che, secondo me, non è corretto chiamare ragazza una donna di trenta-quaranta anni: le parole hanno dei significati precisi e possono poi diventare delle etichette che, inconsapevolmente, ci condizionano.
Quello che colpisce, nelle donne di cui parlo, è la mancata immaginazione della ricchezza di un rapporto profondo con un partner dove si accolgano pregi e difetti propri e altrui, di una relazione dove si abbandoni l'ideale del Principe Azzurro e della famiglia del Mulino Bianco, dove l'amore dia la forza e il coraggio di fare fatica, a volte anche di soffrire, rinunciando ad un mondo fatto di mille possibilità, per sceglierne finalmente una da cercare di realizzare concretamente, riponendo in quella la propria fiducia e il proprio impegno.
Molte volte, nella storia di queste persone, ci sono dei profondi condizionamenti da parte dei genitori, che non le aiutano a diventare veramente autonome perchè continuano a servirle come se fossero bambine. 
Quante madri non insegnano ai figli a far da mangiare, a usare il ferro da stiro o la lavatrice per continuare ad avere potere su di loro, rendendoli di fatto dipendenti, dando la colpa di ciò interamente ai figli, che vengono accusati di non voler fare fatica?
Fa davvero male vedere che gli anni che potrebbero essere utilizzati per diventare consapevoli di chi si è e di cosa si vuole per il proprio futuro, vengano trascorsi vivendo in una sorta di adolescenza prolungata.
La caratteristica che accomuna queste donne é  l'insicurezza, che cercano di tenere nascosta agli altri ma anche a se stesse, mentre in realtà sarebbe proprio il guardare in faccia le proprie insicurezze il punto di partenza per intraprendere quel cammino che potrebbe  portarle a diventare veramente autonome. E le loro insicurezze nascono quasi sempre da un cattivo rapporto coi genitori.
Non è obbligatorio diventare parte di una coppia, nè tanto meno fare figli, però sarebbe bello che la scelta di come portare avanti la propria vita affettiva fosse dettata da una condizione interiore di piena libertà e non da paure, timori, narcisismo o immaturità nei sentimenti. Capita troppe volte di incontrare genitori che, non essendo diventati veramente adulti e pienamente responsabili delle proprie scelte, non riescono a interpretare correttamente il loro ruolo. Non è una buona cosa, ad esempio, che nel rapporto genitore-figlio i ruoli vengano quasi invertiti e un figlio si trovi nell'innaturale ruolo di fare quasi da genitore al proprio genitore, come purtroppo a volte capita di vedere! Esistono genitori che trattano i figli come compagni di gioco, come confidenti o, al contrario, come limitazioni inaccettabili alla loro libertà. 
I figli hanno bisogno di genitori che, dopo averli accuditi e aiutati a crescere, li lascino finalmente andare per la loro strada. 
C'è un detto antico che sintetizza bene il senso del ruolo genitoriale:"I genitori devono dare ai figli le radici e le ali", per permettere loro di fare le proprie scelte nella vita in modo consapevole e indipendente.