martedì 28 febbraio 2023

RIDERE E SORRIDERE IN PSICOTERAPIA

 


Parecchi anni fa ero a Bologna a un incontro con alcuni colleghi psicoterapeuti e rimasi sbigottito nel sentire una di loro chiedere: “Ma secondo voi, è bene dare la mano ai pazienti quando li si accoglie in studio o quando li si saluta alla fine della seduta?”.

Dunque, mi chiesi, secondo questa terapeuta come ci si deve comportare col paziente? Bisogna stargli lontano e non toccarlo fisicamente nemmeno con una stretta di mano perché un contatto anche fugace del nostro corpo col suo potrebbe scatenare in lui o in noi chissà quali sentimenti ed emozioni equivoche, dannose o disdicevoli?

Poi mi venne da chiedermi: e dal punto di vista del rapporto emotivo, come si comporterà questa collega coi pazienti?  Si asterrà dal manifestare tutti i sentimenti che il paziente le provoca durante le sedute? Si imporrà di rimanere impassibile e di non dire nulla anche quando il paziente le racconterà delle sue fatiche di vivere, dei suoi dubbi esistenziali, delle violenze e degli abusi sofferti? Si obbligherà a rimanere una statua di ghiaccio per non condizionare in nessun modo il paziente con le proprie reazioni emotive?

Può sembrare strano ma in psicologia c’è chi ha teorizzato purtroppo simili sciocchezze. Attenzione, non dico che lo psicoterapeuta debba essere uno sprovveduto che si comporta come un amico che manifesta apertamente tutto ciò che prova, dico solo che i sentimenti del terapeuta non devono essere da lui censurati completamente, ma devono essere gestiti con consapevolezza per diventare uno strumento di aiuto per il paziente.

Quest’ultima cosa, però, non è per niente facile, mentre è molto più facile diventare di ghiaccio perché così non si corre alcun rischio di dire e fare cose sbagliate o nel momento sbagliato. Ma lo psicoterapeuta non dovrebbe essere un artigiano delle emozioni? La sua formazione non dovrebbe consistere anche e soprattutto nel non avere paura delle emozioni e nell’imparare durante le sedute ad ascoltare e gestire i sentimenti propri e quelli altrui?

In realtà, come si può pensare di aiutare una persona che sta male perché non ha avuto dei buoni rapporti emotivi e affettivi con gli altri, se non si riesce a far vivere loro, almeno in seduta, un’esperienza emotivamente e affettivamente diversa, cioè positiva, fatta di ascolto sincero, di calore umano, di accoglienza, di mancanza di giudizio ecc.?

E’ solo l’esperienza positiva dei rapporti affettivi con gli altri che permette di accrescere la propria autostima interiore e di diventare più sicuri della autenticità e del valore dei propri sentimenti (e quindi di diventare più sicuri di sé).

Le sedute di psicoterapia quasi sempre per questo servono al paziente: per sperimentare rapporti affettivi con un altro essere umano fondati sul fatto di sentire che esiste qualcuno che ha fiducia in te, che è un tuo fan, che desidera che tu stia bene e che ti dona tutto il proprio sapere e la propria esperienza professionale e personale per aiutarti a conoscere e dare valore alla tua autenticità e a trovare il coraggio di andare nella vita senza paura di essere ciò che sei.

Quindi, quando con un paziente si arriva a ridere o a sorridere insieme e ripetutamente, con complicità, o si arriva a condividere espressioni e pensieri ironici e autoironici, oltre a stare bene e divertirsi, si può sinceramente pensare che la terapia sta andando bene, perché tra il terapeuta e il paziente, si è stabilito un buon rapporto di complicità e di fiducia.

Non sto ovviamente dicendo che la terapia consiste nel raccontarsi le barzellette a vicenda (anche se qualche rara volta mi è successo anche di raccontare una barzelletta a un paziente), sto dicendo che arrivare a trovare lo spazio anche per una risata o un sorriso in un percorso che non è una passeggiata perché va a toccare i punti più deboli e sensibili del paziente, è una cosa estremamente positiva, se gestita dal terapeuta con piena consapevolezza coerentemente con gli obiettivi terapeutici presenti all’interno di ogni percorso di cura.