Parecchi
anni fa ero a Bologna a un incontro con alcuni colleghi psicoterapeuti e rimasi
sbigottito nel sentire una di loro chiedere: “Ma secondo voi, è bene dare la
mano ai pazienti quando li si accoglie in studio o quando li si saluta alla
fine della seduta?”.
Dunque, mi
chiesi, secondo questa terapeuta come ci si deve comportare col paziente?
Bisogna stargli lontano e non toccarlo fisicamente nemmeno con una stretta di
mano perché un contatto anche fugace del nostro corpo col suo potrebbe
scatenare in lui o in noi chissà quali sentimenti ed emozioni equivoche,
dannose o disdicevoli?
Poi mi venne
da chiedermi: e dal punto di vista del rapporto emotivo, come si comporterà
questa collega coi pazienti? Si asterrà
dal manifestare tutti i sentimenti che il paziente le provoca durante le sedute?
Si imporrà di rimanere impassibile e di non dire nulla anche quando il paziente
le racconterà delle sue fatiche di vivere, dei suoi dubbi esistenziali, delle
violenze e degli abusi sofferti? Si obbligherà a rimanere una statua di
ghiaccio per non condizionare in nessun modo il paziente con le proprie
reazioni emotive?
Può sembrare
strano ma in psicologia c’è chi ha teorizzato purtroppo simili sciocchezze.
Attenzione, non dico che lo psicoterapeuta debba essere uno sprovveduto che si
comporta come un amico che manifesta apertamente tutto ciò che prova, dico solo
che i sentimenti del terapeuta non devono essere da lui censurati
completamente, ma devono essere gestiti con consapevolezza per diventare uno
strumento di aiuto per il paziente.
Quest’ultima
cosa, però, non è per niente facile, mentre è molto più facile diventare di
ghiaccio perché così non si corre alcun rischio di dire e fare cose sbagliate o
nel momento sbagliato. Ma lo psicoterapeuta non dovrebbe essere un artigiano
delle emozioni? La sua formazione non dovrebbe consistere anche e soprattutto
nel non avere paura delle emozioni e nell’imparare durante le sedute ad
ascoltare e gestire i sentimenti propri e quelli altrui?
In realtà,
come si può pensare di aiutare una persona che sta male perché non ha avuto dei
buoni rapporti emotivi e affettivi con gli altri, se non si riesce a far vivere
loro, almeno in seduta, un’esperienza emotivamente e affettivamente diversa,
cioè positiva, fatta di ascolto sincero, di calore umano, di accoglienza, di
mancanza di giudizio ecc.?
E’ solo
l’esperienza positiva dei rapporti affettivi con gli altri che permette di
accrescere la propria autostima interiore e di diventare più sicuri della
autenticità e del valore dei propri sentimenti (e quindi di diventare più
sicuri di sé).
Le sedute di
psicoterapia quasi sempre per questo servono al paziente: per sperimentare
rapporti affettivi con un altro essere umano fondati sul fatto di sentire che
esiste qualcuno che ha fiducia in te, che è un tuo fan, che desidera che
tu stia bene e che ti dona tutto il proprio sapere e la propria esperienza
professionale e personale per aiutarti a conoscere e dare valore alla tua
autenticità e a trovare il coraggio di andare nella vita senza paura di essere
ciò che sei.
Quindi,
quando con un paziente si arriva a ridere o a sorridere insieme e ripetutamente,
con complicità, o si arriva a condividere espressioni e pensieri ironici e
autoironici, oltre a stare bene e divertirsi, si può sinceramente pensare che
la terapia sta andando bene, perché tra il terapeuta e il paziente, si è
stabilito un buon rapporto di complicità e di fiducia.
Non sto
ovviamente dicendo che la terapia consiste nel raccontarsi le barzellette a
vicenda (anche se qualche rara volta mi è successo anche di raccontare una
barzelletta a un paziente), sto dicendo che arrivare a trovare lo spazio anche
per una risata o un sorriso in un percorso che non è una passeggiata perché va
a toccare i punti più deboli e sensibili del paziente, è una cosa estremamente
positiva, se gestita dal terapeuta con piena consapevolezza coerentemente con gli
obiettivi terapeutici presenti all’interno di ogni percorso di cura.