sabato 28 dicembre 2013

buon 2014

Auguro a tutti un caldo 2014,
pieno di amore e di amicizie,
di relazioni umane feconde e durature.
Di novità piacevoli
e di forza per superare i momenti difficili.
Di gioie inaspettate
e di scoperte nuove.
Di serena accettazione dei nostri
e degli altrui limiti.
Di amore per il proprio corpo
e per la propria psiche.
Un anno dove tutto sia più equilibrato
e le giornate non assomiglino
a un freddo manuale di geometria.

sabato 21 dicembre 2013

buon Natale


Quest'anno mi sento di sottolineare il tema della nascita, rappresentata dall'immagine dei bambini.
Penso a tutto quello che è nato o può nascere dentro di noi, tutti i giorni, in ogni momento.
Penso alla nostra creatività, alle nostre certezze, frutto di duro lavoro o di illuminazioni improvvise, e ringrazio le incertezze, senza le quali non si può crescere.
Penso a chi ama i bambini e ama anche il bambino che è dentro di lui.
E spero che i bambini crescano e diventino adulti, ma che mantengano viva la loro parte bambina: la curiosità, la voglia di scoprire, di sperimentare, di esprimersi in modo diretto, lo stupore, l'ingenuità, la voglia di essere amici e giocare, la fiducia, la fedeltà, la sincerità e l'impegno.


 


mercoledì 18 dicembre 2013

luminarie natalizie


Detesto le luminarie natalizie di colore blu. 
Il blu elettrico è un colore freddo, non trasmette calore, soprattutto se associato al bianco, e solo in una società fredda come la nostra può avere successo. 
Il blu è un colore molto elegante, ma il Natale non è la festa dell'eleganza, è la festa della semplicità e del calore, quindi meglio i colori tradizionali: gialli, verdi e rossi:


Mi sono insopportabili anche le luminarie che si accendono e si spengono troppo rapidamente, perché danno sensazioni frenetiche e veloci come i ritmi ansiogeni della vita di oggi. 
Meglio le luci che si accendono e si spengono cambiando colore lentamente.

domenica 15 dicembre 2013

papà, mamma, io sono qui...




Mi sono imbattuto qui (www.facebook.com/ViaGiacosaAlba?ref=hl) in questa vignetta che ritengo molto significativa. 
Un padre chiede al figlio dove ha sbagliato con lui, ma sbaglia perfino ragazzo, non è nemmeno capace di riconoscere il figlio.

Quante relazioni sono così? Quante volte non riusciamo ad essere veramente in relazione con qualcuno, non lo vediamo per ciò che realmente tenta di comunicarci, accecati dai nostri pregiudizi e preconcetti? Quante volte sappiamo già cosa diremo dopo che l'altro avrà parlato e non ascoltiamo davvero ciò che l'altro ci comunica?

Quanti vorrebbero gridare ai propri genitori: Papà, mamma, guardatemi, io sono qui...

giovedì 12 dicembre 2013

la musica può anche uccidere

Stasera a cena mio figlio mi ha raccontato di un ragazzino di Bologna che, con le cuffiette per ascoltare la musica nelle orecchie, ha attraversato a piedi un passaggio a livello con le sbarre abbassate ed è stato ucciso da un convoglio in corsa perchè non aveva sentito il fischio del treno.

Pochi minuti fa ho letto sul sito di un giornale locale che oggi a Modena una ragazza, sempre con le cuffiette nelle orecchie, ha attraversato una strada non sentendo la sirena di un'autopompa dei vigili del fuoco che l'ha travolta ed ora è in rianimazione all'ospedale.
Forse dobbiamo dirlo ai ragazzi che la musica può anche uccidere.
  

lunedì 9 dicembre 2013

andare per negozi

Mi capita ogni tanto di cercare nei negozi un prodotto ottimo, che uso da molti anni con soddisfazione e sentirmi rispondere dal negoziante: mi dispiace, ma non lo fanno più oppure la ditta che lo produceva ha chiuso, frasi che mi lasciano sempre una sensazione di vuoto. 
L'ultima volta che mi è successo, ho replicato: mi dispiace molto, era un ottimo prodotto e la negoziante, una donna piuttosto anziana, ha aggiunto:  eh, tutte le ditte che fanno degli ottimi prodotti chiudono..., frase che mi ha parecchio abbattuto...
Nel complesso, ho la sensazione che a chiudere siano quelle aziende che fanno prodotti un po' diversi dalla media, da quelli che vanno per la maggiore e che resti in piedi un numero sempre minore di aziende, sempre più grandi, che producono tantissime cose molto simili tra loro, con un effetto complessivo di impoverimento nella nostra possibilità reale di scegliere, un po' come succede per i centri commerciali, che si divorano centinaia di piccoli esercizi e negozietti.

Guardate le insegne dei negozi lungo una strada commerciale: ci sono tantissimi negozi che vendono servizi (banche, assicurazioni, sale giochi, servizi finanziari, parrucchieri e barbieri, agenzie interinali, ecc.) ma relativamente pochi che vendono cose, a parte abbigliamento e telefonini. 
Spesso trovare una ferramenta, una merceria, un negozio di giocattoli, un negozio di alimentari o una macelleria non è così facile.

Per non parlare poi dello scadimento generale della qualità dei prodotti e della loro durata nel tempo: i venditori onesti consigliano quasi sempre di tenere gli elettrodomestici più vecchi, perchè i nuovi sono magari più belli esteticamente, ma si rompono molto più facilmente.

Insomma, nonostante sia vero che in un centro commerciale possiamo trovare tante cose, ho la sensazione che la possibilità di scelta stia restringendosi sempre più. Un po' come i canali televisivi, che si sono moltiplicati, ma che offrono più o meno gli stessi programmi, solo con nomi diversi.

sabato 30 novembre 2013

la paura della felicità

Può sembrare incredibile, ma si può avere paura di essere felici.

A volte rimaniamo attaccati alle situazioni che ben conosciamo e che perciò non ci fanno paura (anche se non stiamo bene), piuttosto che lasciarci andare verso novità portatrici di possibile benessere che però, essendo sconosciute, ci fanno sentire incerti ed insicuri. 
Altre volte ci troviamo per la prima volta a godere di una situazione decisamente positiva e dopo un po' ci chiediamo: dove sarà la fregatura? Quando arriverà la bastonata? Così non stiamo mai bene.

Quando non si è abituati a stare bene, si tende ad essere diffidenti verso il futuro, anche quando sembra portarci buone cose.
Aprirsi al nuovo, pur con attenzione e cautela, pensare che è possibile che anche per noi possa arrivare qualche momento di felicità, è indispensabile per non contribuire noi stessi a farci rimanere sempre nella stessa situazione paludosa. 
Non dovremmo mai dimenticarci che noi possiamo essere artefici del nostro destino, almeno in una certa misura, se non ci lasciamo sopraffare da pensieri totalmente negativi.



giovedì 21 novembre 2013

la perfezione non esiste

Siamo abituati a pensare che l'assoluto abiti spazi senza limiti e ci sentiamo stretti negli spazi angusti della quotidianità.
L'amore, ad esempio, viene spesso immaginato come qualcosa di perfetto, mentre le relazioni che viviamo nella quotidianità spesso ci feriscono con le loro imperfezioni.
Trovare l'assoluto nella concretezza delle situazioni che incontriamo quotidianamente, significa accettare alcuni limiti, relazionarsi con le persone esattamente così come sono, nel bene e nel male, senza la pretesa di cambiarle.

L'altro reale è sempre limitato, ma in lui si deve incarnare il nostro desiderio di assoluto. Per realizzare ciò, è importante che i difetti dell'altro siano accettati, che le caratteristiche altrui che non ci piacciono siano da noi scelte consapevolmente insieme ai pregi, che non si sezionino le persone in base ai propri desideri, rifiutando le parti che meno ci piacciono.
L'amore è un'apertura alla vita, ma anche un'autolimitazione che dovrebbe essere scelta consapevolmente con gioia, in totale libertà e con la consapevolezza che la perfezione non esiste.

sabato 16 novembre 2013

inebriante

Mi è capitato di riflettere su questa parola: inebriante.
Lo spunto è stato il dialogo con una persona che mi raccontava della mancanza, nella sua vita, di qualcosa di inebriante. Non un liquore, non una droga, ma qualcosa di inebriante nella relazione col mondo.
E mi sono chiesto: quanti di noi vivono momenti inebrianti nella loro vita? Quanto è necessario che momenti siffatti esistano? Ma soprattutto, cosa è che ci dà la sensazione di vivere qualcosa di inebriante?

Il dizionario definisce inebriante ciò che dà ebbrezza (una bevanda, un profumo, una musica).
Ma cos'è ebbrezza?
La Treccani la definisce:
stato di esaltazione e di piacevole stordimento per una gioia intensa, per una passione.
Se ciò è vero, può essere inebriante la passione per la vita, per una relazione nella quale si possa essere davvero se stessi avendo la sensazione di essere compresi.
Allora inebriante ha molto a che fare con autentico. 
Credo che spesso andiamo a cercare in cose stravaganti, inusuali, fuori dall'ordinario la nostra dose di ebbrezza, mentre è proprio nella fedeltà a noi stessi, nel profumo della nostra autenticità e nella ricerca delle nostre verità, che potremmo trovare il piacere più grande dell'esistenza. Quell'ebbrezza che nasce dalla consapevolezza di sapere ciò che siamo e di sentirci autorizzati ad esserlo nella quotidianità, coi nostri pregi e i nostri difetti, come tutti, superando la paura di non essere all'altezza delle aspettative eccessive nostre e degli altri.

domenica 10 novembre 2013

elogio della ricerca

Cresce sempre di più, nella nostra società, il valore che si dà ai prodotti finiti, mentre cala l'interesse per i processi di produzione, per l'attività di ricerca che ne permette la realizzazione.
All'inizio degli anni '80 l'Olivetti, che era leader mondiale nel suo settore, chiuse l'attività di ricerca, pensando di copiare o comprare il risultato della ricerca di altri; il risultato fu che, nel giro di dieci anni, quell'industria cessò di esistere.
Il discorso non riguarda solo la produzione di oggetti. 
Nell'ambito della psicoterapia, ad esempio, cresce sempre di più il numero di persone che cercano qualcuno che possa offrire una soluzione preconfezionata, perchè vorrebbero comprare un prodotto creato da altri che consenta loro di trovare la soluzione ai propri problemi esistenziali; costoro sono scarsamente interessati a fare un'attività di ricerca personale per conseguire quel risultato. E' un atteggiamento forse figlio della nostra società, che tende a voler accorciare al massimo gli spazi e a velocizzare il tempo.
Questo modo di fare espone però al rischio della dipendenza: il prodotto, invece di essere al nostro servizio, rischia di farci diventare dipendenti da sè e dal suo uso.
Spesso ci dimentichiamo dei processi naturali di crescita e sviluppo, che sono faticosi e lenti, se paragonati a quelli degli oggetti ipertecnologici che, con le loro prestazioni, ci regalano l'ebbrezza di sentirci quasi onnipotenti.
Il massimo della velocità si raggiunge nella dimensione dell'usa e getta, dove ad un oggetto se ne sostituisce un altro senza soluzione di continuità, come avviene in tante relazioni interpersonali, soprattutto quelle a sfondo prevalentemente sessuale.
In questa dimensione, è abolita la storia, quindi la valorizzazione delle nostre radici, della nostra reale essenza individuale fatta necessariamente di luci e ombre, di pregi e difetti: ombre e difetti che gli oggetti ipertecnologici non possono assolutamente possedere, pena la loro immediata espulsione dal mercato.
Noi stessi rischiamo di vederci, immaginarci e trattarci come oggetti, pronti a considerarci inadeguati se non siamo sempre e in ogni caso efficienti e a volte pensiamo di risolvere i nostri problemi andando in libreria a cercare un manuale di comportamento o in farmacia a comperare una pillola, che ci permettano in pochissimo tempo di recuperare il massimo dell'efficienza.
Tendiamo a non considerarci più soggetti che possono operare per la propria guarigione, che possono ogni giorno costruire e inventare la propria storia, ma oggetti ai quali un libro o una pillola (che diventano i soggetti) possono modificare il comportamento. E se in qualche momento piuttosto duro questo può anche avere un senso, quando diventa un sistema di vita, potrebbe essere opportuno rifletterci un po' sopra per cercare il modo di recuperare il desiderio e la capacità di essere semplicemente ciò che veramente siamo.
   

giovedì 7 novembre 2013

di ritorno dalla Biennale di Venezia


Di ritorno dalla Biennale di Venezia, mi è capitato di osservare scorci di realtà e di pensare: ecco, questa è un'opera d'arte, potrebbe essere esposta alla Biennale: mi è accaduto, ad esempio, con una rastrelliera di biciclette colorate un po' malandate e con la porzione di un edificio un po' diroccata incontrata lungo l'autostrada.
Anche mentre mi spostavo tra un padiglione e l'altro della Biennale, ogni tanto, avevo il dubbio se un certo manufatto, un oggetto con una sua identità particolare, ad esempio un bidone scrostato o un cestino un po' storto, fossero opere d'arte o oggetti comuni. 
Non sto scherzando e non è una sensazione di poco conto. 
Intanto, perchè può significare che qualsiasi cosa che abbia una sua identità singolare può offrire uno spunto creativo, se guardata con occhio artistico, e dall'altra, ci può fare chiedere qual'è la differenza tra noi comuni mortali e gli artisti affermati e ufficialmente riconosciuti come tali. 
Io credo che gli artisti contemporanei abbiano delle intuizioni, dei sentimenti, delle urgenze interiori, come noi tutti, e che, a differenza di noi, abbiano il tempo e il coraggio per trasformare questo materiale in oggetti, installazioni, video e invenzioni varie.
Cosa mi ha colpito di più?
A parte i disegni originali del Libro Rosso di Jung, così carichi di energia e di colori, che sono stati la molla che mi ha spinto ad andare a Venezia, insieme all'idea di prendermi un paio di giorni di riposo in quella splendida città, mi ha colpito il fatto che la stragrande maggioranza delle opere esposte raccontano il disagio, la povertà d'anima, la ripetitività, la mancanza di speranza che caratterizzano grande parte della nostra società. E poichè esponevano artisti di quasi cento nazioni diverse, temo che la globalizzazione riguardi anche lo smarrimento interiore rispetto alle prospettive di sviluppi futuri positivi del nostro mondo.

Una bella eccezione mi è rimasta particolarmente impressa: nel padiglione finlandese c'era un video che raccontava l'impresa di un giovane artista, che faticosamente trascinava nel mare alto circa un metro, a una certa distanza dalla spiaggia, uno dopo l'altro, una lunga serie di sacchi neri, fino a formare una barriera per le onde (tipo frangiflutti) che poi diventava un isoletta con addirittura una palma, sulla quale si sedeva contento, dopo la sua grande fatica. 
Ho apprezzato il significato simbolico del suo sforzo per contrastare e superare le ondate del mare che tendevano ad impedirgli di costruire la sua piccola personale isola (e d'altra parte, il rapporto col mare è un tema simbolico che si trova spesso nei sogni che facciamo).
Al contrario, il momento più disperante è stato nel padiglione spagnolo, dove troneggiava un enorme cumulo di rottami alto circa sei metri e largo come tutto il padiglione.

In compenso, ho mangiato dell'ottimo pesce, a prezzo accettabile, vicino a Venezia e venerdì primo novembre è stata una splendida giornata quasi primaverile. 


  

sabato 26 ottobre 2013

diventare se stessi

Nietsche diceva che Si ripaga male un maestro se si rimane sempre scolari, a me viene da aggiungere che si ripaga male un genitore se si rimane sempre figli.

lunedì 21 ottobre 2013

la paura delle responsabilità

La differenza tra il bambino e l'adulto consiste fondamentalmente nella consapevole accettazione delle responsabilità.
E' comodo evitare responsabilità, ma in questo modo si evita di crescere.
Alcuni bambini hanno paura di crescere, altri lo desiderano: credo che spesso la differenza sia determinata dall'atteggiamento dei genitori nei confronti delle responsabilità che la vita familiare e in genere la vita adulta necessariamente comporta. Un genitore che accetta di buon cuore le difficoltà degli impegni che si è assunto insegna ai figli che crescere è bello.

Accettare responsabilità significa radicarsi nel mondo e rinunciare a dilettarsi tutta la vita con infinite possibilità.
Certo, occorre essere liberi per autolimitarsi e non farlo perchè altri ce lo impongono con la violenza fisica o morale oppure con ricatti affettivi; questa è forse la cosa più impegnativa da realizzare.

Una nazione di irresponsabili è una nazione che non va da nessuna parte, un luogo dove ciascuno cura solamente il proprio orticello e si disinteressa completamente di quelli degli altri.

Credo che bisogna uscire da un equivoco: nessuno può salvare il mondo, nessuno può dare agli altri più energie di quelle che realmente ha disponibili, e d'altra parte è vero che dobbiamo destinare a noi stessi un numero sufficiente di attenzioni, per sopravvivere decentemente bene; ma tra i due estremi (l'egoista e il santo) c'è la realtà delle relazioni umane, che ha il suo fondamento oltre che nell'amore, anche nella responsabilità e nel rispetto sia per noi stessi che per gli altri.


giovedì 17 ottobre 2013

salviamo i bambini

Salviamo i bambini.
Cerchiamo di immaginare chi sono e cosa hanno dentro. Non i bambini in generale, ma quello lì, quello che abbiamo davanti e che ci sta guardando coi suoi occhi bambini.
Ascoltiamoli.
Se gridano, c'è sempre un motivo, come del resto anche noi.
Se sono felici, c'è sempre un motivo, come del resto per noi.
Ho visto bambini trascinati, urlanti, da genitori inflessibili, quasi aguzzini, convinti della bontà della propria cattiveria.
Perchè non si può ragionare coi bambini? Forse perchè noi non ragioniamo con loro?
Perchè non ci raccontano niente? Forse perchè noi non raccontiamo niente a loro?
I bambini hanno paura delle nostre paure, delle nostre incertezze mascherate da rigidità.
I bambini capiscono tutto, hanno antenne sensibilissime, sanno perfettamente quali sentimenti ci abitano il cuore. E' inutile volerli imbrogliare, riescono sempre a smascherare le nostre bugie, anche se non trovano il coraggio di dircelo e si tengono la terribile verità tutta per loro.
I bambini soffrono per noi. Recitano la parte che noi non abbiamo imparato. 
E ci vogliono salvare, vogliono che noi stiamo bene, perchè senza di noi sono perduti; noi lo sappiamo e spesso ci marciamo sopra. 
Anche quando ci fanno ammattire, quasi sempre lo fanno per farci sapere che c'è qualcosa che non va e che loro non hanno il potere di cambiare le cose.
Lo so, non è facile, perchè siamo sempre di corsa, perchè c'è tanto da lavorare o perchè abbiamo mille problemi. Ma cerchiamo di regalare loro, in mezzo ai giocattoli di cui li riempiamo, il dono più grande: la verità, l'autenticità, l'ammissione che non siamo extra-terrestri, che anche noi ci stanchiamo, ma che anche in quei momenti loro non escono dal nostro cuore.
Facciamoli sentire amati, perchè è questo di cui hanno bisogno. 
Stiamo dalla loro parte, loro staranno dalla nostra.
Come dice l'I King: non vi è nulla che sia più facile da evitare e più difficile da eseguire che spezzare la volontà ai bambini.

giovedì 10 ottobre 2013

la scuola oltre il fiume (1959)

Non voglio commentare, non voglio paragonare gli anni passati ai nostri giorni.
Ma qualche riflessione si può fare, dopo aver guardato questo breve filmato del 1959:


domenica 6 ottobre 2013

le opere di Jung alla biennale di Venezia

Un'idea per un fine-settimana piovoso d'autunno? Andare a visitare la Biennale di Venezia, aperta fino al 24 novembre, esclusi i lunedì. 
Quest'anno, per noi psicologi junghiani, c'è una chicca: l'esposizione delle tavole dipinte da Jung che illustrano il suo Libro Rosso, recentemente pubblicato anche in Italia.

Proprio ieri, un amico che non è psicologo e non è junghiano, ma è semplicemente un artista creativo, mi ha raccontato, assieme alla moglie, le emozioni che hanno provato davanti a queste opere di Jung esposte ai Giardini della Biennale, sostenendo che sono stupefacenti anche dal punto di vista tecnico-pittorico, paragonabili ad antiche preziose miniature.

Ma fare un giro alla Biennale, lui sostiene, fa bene comunque, perché si entra in contatto con creazioni di artisti di ogni parte del mondo e ci si apre un po' la testa, ci si relaziona con stimoli che attivano i nostri sentimenti e i nostri pensieri, come un invito a un dialogo che vada oltre la tradizionale ricerca del bello.

Se volete avere subito un'idea delle immagini realizzate da Jung, potete guardare qui:
https://www.google.it/search?q=libro+rosso+jung&espvd=210&es_sm=122&um=1&ie=UTF-8&hl=it&tbm=isch&source=og&sa=N&tab=wi&ei=fWdRUumWKabo4QTg_4HIBg

giovedì 3 ottobre 2013

amor sacro e amor profano

Amor sacro e amor profano - Tiziano - 1514
Mi ha sempre lasciato perplesso la contrapposizione tra amore sacro e amor profano, mi ha sempre lasciato con una sensazione di incompiutezza, come due parti che non rappresentano l' intero perché sono vissute come scisse, opposte tra loro.
Io credo che l'amore possa contenere in sé entrambi i termini. 
Fisicità e spiritualità sono due modalità che, se congiunte, possono esprimere compiutamente l'incarnazione dell'amore.
L'Amore è uno solo e la sua sacralità si può manifestare appieno nel rapporto fisico tra corpi non disgiunti dall'anima, ma vivificati dalla totalità con cui si può essere nella relazione amorosa, anche al di fuori delle credenze religiose e dei sacramenti. 
Un esserci completamente, che include necessariamente la presenza del sacro accanto al profano. 

giovedì 26 settembre 2013

identità o efficienza?

Charlie Chaplin nel film Tempi moderni
Il compito fondamentale di ciascun essere umano dalla nascita in poi è prendere coscienza della propria vera identità, per potere relazionarsi con gli altri e col mondo nel modo più autentico.
Fino a qualche decennio fa, ciò significava fondamentalmente due cose: da un lato, andare oltre la assoluta istintività della primaria condizione di natura e, dall'altro, difendersi dai principi morali troppo ristretti ed oppressivi: in termini psicanalitici, l'Io doveva trovare la propria identità barcamenandosi tra la istintività collettiva dell'Es e l'eccessivo rigore morale del Super-Io.
E' ancora valido oggi questo modello?
Nei suoi aspetti fondamentali è ancora valido, ma si è aggiunta una complicazione importante, perchè la nostra società dominata dalla tecnica, tende ad applicare le leggi della tecnica anche agli individui e alle relazioni tra le persone. Ciò significa che, così come una macchina deve funzionare e produrre al massimo delle sue possibilità, altrimenti non va bene e deve essere aggiustata o sostituita, nello stesso modo si è diffusa l'abitudine di considerare gli esseri umani in base alla loro funzionalità e produttività, non solo rispetto al mondo del lavoro, ma anche alla rete di relazioni umane ed affettive in cui sono inseriti.
L'uomo come la macchina, nel lavoro ma anche nelle relazioni affettive: se è efficiente va bene, altrimenti è malato o diverso, non funziona bene, con conseguente diminuzione dell'autostima.

Questo modo di considerare le persone, piano piano si è inserito nelle coscienze individuali e ci ha pesantemente condizionato. Per ovviare a ciò, sono nate un'infinità di tecniche che hanno lo scopo di farci diventare più efficienti nel più breve tempo possibile. Il rischio è però di concentrarsi esclusivamente sul cercare di diventare più efficaci, di fornire prestazioni all'altezza delle richieste e dei modelli che ci vengono proposti, smettendo di chiederci chi siamo veramente e come vorremmo cercare davvero di vivere per stare decentemente bene.

Questo discorso vale, naturalmente, anche per il corpo: chi non è all'altezza dei modelli che vanno di moda, tende a non essere apprezzato. Anche il corpo è diventato un corpo-macchina, che viene valutato e quindi amato in base alla quantità di prestazioni che fornisce. 
Il fatto che uno possa essere non proprio perfetto ed efficiente rispetto a qualche scala di valori fisica o psichica, diventa subito diversità, stigma, etichetta negativa, situazione da eliminare.

Il mondo, quindi, come una gara continua dove solo chi vince o arriva tra i primi è felice e realizzato, mentre gli altri vengono eliminati o marginalizzati, come tanti programmi televisivi ci insegnano quotidianamente.
Perciò credo che sia importante, oggi più che mai, cercare di riconoscere, valorizzare e amare la nostra vera identità fisica e psichica, non per isolarsi dagli altri, ma per cercare di portare avanti la nostra vita sulla base di quelle che sono le nostre caratteristiche più autentiche, anche se possono sembrare un po' diverse o meno produttive rispetto a quelle altrui.

  

lunedì 16 settembre 2013

amore o possesso?

E se non dicessimo più mia moglie o mio marito?
Se non usassimo più l'aggettivo possessivo per indicare il coniuge che amiamo?

Questa è la proposta provocatoria che Umberto Galimberti ha lanciato oggi nel corso della sua conferenza al Festival della Filosofia di Modena, rispondendo alla domanda di una donna che chiedeva cosa si può fare per fermare il femminicidio.
La sensazione di possedere l'altro, il sentirlo come cosa propria, invece di considerarlo una persona libera, padrona di sé stessa, è alla base delle violenze che si consumano quando l'altro non soddisfa i nostri desideri e reclama la propria autodeterminazione.

E' una proposta che forse fa fatica ad essere accettata a livello razionale, perchè siamo abituati da sempre a dire: mia moglie, mio marito, la mia fidanzata, ma anche mio figlio... Provate però ad immaginare se nessuno dicesse più mio o mia riferendosi alla persona che ama, se non si sentisse nessuno usare più queste parole. Chissà se a livello collettivo cambierebbe qualcosa nella percezione della relazione amorosa con l'altro?

E in ogni caso, anche solo ricevere questa provocazione e fermarsi un po' a rifletterci sopra, può fare un po' di bene. Quando ci arrischiamo ad andare con l'immaginazione oltre le regole di comportamento codificate razionalmente, allarghiamo i nostri orizzonti e possiamo immaginare di realizzare cambiamenti che migliorino il nostro e l'altrui modo di vivere.


martedì 10 settembre 2013

amare

Cosa si può dire di essenziale sull'amore?
Cosa significa amare?
Io credo che amare significhi soprattutto desiderare che una persona possa essere libera di essere ciò che è veramente e fare tutto il possibile affinché questa condizione si realizzi.
Poichè, come sappiamo, si deve amare il prossimo come sé stessi, ne consegue che la realizzazione pratica dell'amare dovremmo cercare di concretizzarla sia nei confronti degli altri che verso noi stessi.

Per poter amare bisogna conoscere l'oggetto d'amore, quindi la conoscenza di sé e degli altri è la conditio sine qua non per poter amare. Come posso amare all'interno di un rapporto concreto colui che non conosco? Come posso cercare di aiutarlo a diventare sé stesso se non intuisco la verità della sua essenza? Diversamente si corre il rischio, peraltro molto frequente, di amare l'oggetto delle nostre proiezioni, una sorta di film che ci facciamo su come l'altro è, che però non corrisponde alla realtà.

L'amore reciproco è pienamente compiuto quando entrambi gli amanti amano molto e con la stessa intensità sé stessi e l'altro.




giovedì 29 agosto 2013

la conoscenza di sè

La conoscenza di sè è fondamentale, ma come si fa a conoscersi meglio? A sapere con certezza qualcosa di più della nostra più vera, intima essenza individuale?
Per rispondere a questa domanda, può essere utile ripensare alle nostre esperienze passate, a quali situazioni ci hanno fatto conoscere qualcosa di vero di noi stessi. Possono essere stati incontri casuali con persone che hanno accolto la nostra verità facendoci da specchio, oppure momenti di introversione, di solitudine quasi depressiva, che ci hanno dato la spinta per superare le paure, per sfrondare gli orpelli che ci eravamo costruiti e che ci hanno spinto con forza a cercare la nostra essenza più vera. 
Cercare la verità spesso mette paura. Ed è giusto che sia così, perchè solo se sentiamo di avere le energie sufficienti per farlo, dobbiamo cercare di conoscere e realizzare ciò che siamo veramente, perchè ci vuole forza e coraggio per confrontarsi con gli altri sostenendo i propri valori e la propria visione della vita, in quanto spesso ci si può sentire diversi.

Conoscersi e avere la forza di proporsi agli altri per quello che si è, significa essere più selettivi e avere meno paura degli altri, desiderando di più il confronto con gli altri su un piano di parità e di reciproco rispetto. 
Solo chi ha paura o è insicuro di sè, tende ad avere un atteggiamento di aggressività, per difendersi e cercare di spaventare l'altro, come fanno i cagnolini piccoli che abbaiano a quelli più grandi, i quali, peraltro, spesso, essendo più forti, non rispondono alle provocazioni.
    
Sicuramente non si arriverà mai a conoscersi completamente, ma è certo che ciascuno di noi ha una propria identità che, se riconosciuta e rispettata, lo farà vivere meglio, in modo più naturale.

Spesso compare la paura di conoscersi meglio, perchè si teme di scoprire aspetti negativi della propria personalità. Io credo che bisogna cercare di superare questi timori, perchè solo se si conoscono anche le parti meno nobili di noi, si può essere in grado di fronteggiarle, depotenziarle o magari scoprire che non sono proprio nostre per natura, ma che le abbiamo solo utilizzate per difenderci, per sopravvivere in condizioni di difficoltà. Oppure ci è stato detto da altri che siamo cattivi e malvagi, semplicemente perchè una parte della nostra indole, il nostro temperamento esuberante, dinamico, diverso e fuori dalle righe, non era gradito e accettato. 
A volte si diventa aggressivi semplicemente perchè gli altri lo sono stati con noi, ma si tratta di una reazione difensiva, non di un tratto di personalità negativo. Anzi, un po' di aggressività è bene che ci sia, perchè altrimenti diventiamo succubi di chi ci vuol fare diventare quello che vuole lui. Il problema non è l'aggressività in sè, ma è come la si usa. 

La forza per acquisire una sempre maggiore conoscenza di sè si fonda sulla convinzione interiore che sia giusto diventare consapevoli di ciò che si è veramente e che questo vale per noi come per tutti gli altri, ad iniziare dai nostri figli e dalle persone a cui vogliamo più bene.        

giovedì 22 agosto 2013

la libertà...

Per chi non l'ha mai sentita ma anche per chi la conosce già.
Per arricchire il significato della libertà.


giovedì 8 agosto 2013

liberi di esistere

Ci sono dei momenti, nella vita, nei quali il nostro passato è inerte, rappresenta solo se stesso e non ci comunica nulla di nuovo, mentre il futuro è ancora di là da venire e di lui non riusciamo ad immaginare proprio nulla.
C’è solo il presente, che è fatto di irrequietezza, di sensazioni ondivaghe e dell’assenza di qualsiasi certezza.
Se riusciamo a non cadere nello smarrimento, tenendoci ancorati a noi stessi, a quello che, comunque, percepiamo di noi, possiamo provare uno stato d’animo simile ad una lieta liberazione, una gioia bambina. Se ascoltiamo attentamente dentro di noi, possiamo sentire la nostra anima creativa che è in movimento, possiamo percepirne le vibrazioni sottili.
Non ci sono obblighi, non ci sono modelli. Non c’è un programma prestabilito, nessuna istruzione per l’uso.
Siamo liberi, liberi veramente (e la cosa spesso spaventa un po’): liberi di essere, liberi di immaginare, liberi di fantasticare, liberi di ascoltarci.
Spesso questi momenti coincidono con delle giornate di ferie, quando usciamo dalla routine quotidiana.

Forse a questo servono soprattutto le ferie: oltre a riposare, a cercare di entrare in contatto con la nostra anima più autentica e libera, a riportarla alla luce, alla faccia delle cattive abitudini quotidiane che la nascondono alla nostra coscienza.

martedì 25 giugno 2013

cibo


Esiste un cibo per il corpo e un cibo per l’anima.

Ci sono cibi che nutrono e altri che non nutrono.

Si può essere sazi di cibo per il corpo e affamati d’amore.

I bulimici buttano dentro di sé ogni sorta di schifezza,
come se fossero dei pozzi vuoti o delle fogne.

Gli anoressici rinunciano al cibo materiale per un ideale di perfezione.


venerdì 21 giugno 2013

l'educazione secondo Marcello Bernardi

Quella irriducibile speranza che si chiama libertà, quel misterioso indefinibile appello che risuona costantemente nel profondo di ogni essere umano, credo nasca soprattutto dall'educazione. Parola, anche questa, fra le più imbarazzanti. Se ne possono dare mille definizioni, di libertà e di educazione, ma è difficile, forse impossibile, esprimerne l'essenza. Penso comunque che l'uomo educato - e solo lui - sia veramente libero.
Libero dalle prevaricazioni di un qualsiasi sistema, libero dal ricatto, dalla paura e dal bisogno. E se potessi tentare di tradurre questa mia convinzione in parole, direi che un essere umano è educato quando ha imparato a superare il suo egocentrismo, a entrare nell'universo e a far entrare l'universo in sé stesso, a non misurare gli altri uomini e le cose sulla propria misura e a non misurare la propria persona sui codici del mondo. In breve, per usare una parola scomoda, quando sa amare.

Tratto da Marcello Bernardi e il judo di Cesare Barioli, Vallardi ed.

venerdì 14 giugno 2013

forza e fragilità

Ciascuno di noi ha le proprie fragilità.
Non esiste una persona che non abbia qualche punto debole, anche coloro che sembrano perfetti.
Anzi, più si ha paura delle proprie fragilità e più si cerca di apparire solidi come l'acciaio.
Non è un caso che uomini di potere perdano la testa e compiano gesti estremi se la loro fortuna vacilla.
Al contrario, le persone realmente forti sono quelle che riescono ad accettare le proprie fragilità senza farne un dramma.

D'altra parte, le vere amicizie si basano sulla confidenza, che nasce dalla condivisione delle difficoltà che si sperimentano nella vita.
Se tutti riuscissero ad accettare le proprie e le altrui fragilità senza giudicarle in modo eccessivamente negativo e senza averne troppa paura, le relazioni tra gli uomini sarebbero molto più autentiche e appaganti.

Identificarsi con l'immagine della persona superiore agli altri e senza debolezze è ciò che impedisce l'intimità delle relazioni.
A molti figli viene attribuito dalla famiglia questo ruolo di persona sempre forte, che impedisce loro di poter vivere anche le proprie debolezze; costoro devono quindi sopportare, senza lamentarsi, altri membri della famiglia cui viene attribuita l'etichetta di più debole, più incapace, ecc.
Ciò purtroppo a volte conferisce a quello che viene definito più debole l'alibi per crogiolarsi nella propria debolezza, mentre l'altro è costretto a impersonare sempre il ruolo del più forte, non potendo mai manifestare le proprie fragilità. 


sabato 8 giugno 2013

andare incontro al paziente

Molti anni fa, quando ero ancora all’inizio della professione, mi telefonò una persona che mi raccontò di essere da poco tempo in cura da uno psicoterapeuta, col quale però le cose non andavano bene.
Mi spiegò che aveva degli attacchi di panico molto forti che gli impedivano fisicamente di andare nello studio del terapeuta e, nonostante le sue richieste, il medico non era disponibile per andare a fare le sedute di psicoterapia presso il suo domicilio.
Mi chiese quindi se io avrei potuto andare a fare le sedute nella sua abitazione. Risposi affermativamente e iniziai ad andare da lui ogni sabato mattina.
Un po' di tempo dopo mi disse che si sentiva pronto per provare a venire con la sua automobile nel mio studio, che distava circa 20 chilometri da casa sua. Io acconsentii e il sabato successivo lo aspettai nel mio studio, sperando di vederlo arrivare.
Poco prima dell’orario concordato, ricevetti invece una sua telefonata nella quale mi disse che era riuscito ad arrivare in automobile fino a un paesino che era circa a metà strada tra casa sua e il mio studio. Mancavano ancora 10 km, ma lui non riusciva né a proseguire verso il mio studio, né a tornare a casa: era bloccato esattamente a metà strada.
Gli dissi di non preoccuparsi, che sarei andato io da lui, e così feci. Lui intanto si era seduto al tavolino di un bar all’aperto. Lì lo raggiunsi, mi sedetti vicino a lui e facemmo la nostra seduta sotto l'ombra di un albero. Dopo un’ora mi disse che se la sentiva di tornare a casa, e così fece.
Il sabato successivo ci riprovò e questa volta arrivò fino al mio studio: ricordo ancora l’atmosfera di festa e di gioia che vivemmo insieme quel giorno!

Questo episodio è rimasto profondamente impresso nella mia memoria, perché questo trovarsi a metà strada, questo fare ciascuno dei due il proprio pezzo di strada per andare incontro all'altro è rimasto per me simbolo ed essenza del lavoro psicoterapeutico.

venerdì 31 maggio 2013

tutto scorre

Bisognerebbe sentirla scorrere,
la vita,
bisognerebbe non opporvisi e non ignorarla,
seguire il suo flusso, essere con lei,
esserle amica,
anche quando ci ferisce con le sue asperità improvvise.
Bisognerebbe ascoltare la sua musica,
lasciarsi cullare dai suoi suoni,
abbandonarsi alle sue melodie
e alle sue dissonanze.

Tutto scorre, in ogni momento,
il nuovo diventa vecchio
e sempre qualcosa di diverso ci si presenta davanti.
Come in un film, come in un sogno,
le immagini scorrono e noi dove siamo?

Come salmoni vogliamo tornare alla fonte,
entrare in un senso vietato.
Tutto inutile, si può solo andare avanti,
cercando la strada,
accettando le difficoltà,
senza perdere mai la fiducia,
mescolando passato e futuro,
dolcezze e amarezze,
rimanendo ancorati al presente,
in compagnia della nostra immaginazione.



martedì 28 maggio 2013

elogio dell'inatteso

L'atteso non si compie 
e all'inatteso un dio apre la via.
Euripide

Io sono la somma delle mie esperienze. Bene.
Ma ora come vado avanti? Come posso fare nuove esperienze? 
In due modi: cercando il nuovo o aprendomi all'inatteso.
C'è una notevole differenza tra questi due atteggiamenti, apparentemente simili.
Se cerco il nuovo, sono Io che mi organizzo e decido le strategie sul come e dove cercare, seguirò un piano che avrò deciso in base a ciò che già sono, sulla base di ciò che so, che già conosco.
Se invece mi apro all'inatteso, se sono disposto ad andare a conoscere senza pre-giudizi ciò che mi capiterà "casualmente", che non sarà ciò che stavo cercando perchè non era nelle mie pre-visioni, allora avrò l'occasione di fare davvero una esperienza diversa.
Lo si vede bene quando si pianifica un viaggio. Io posso decidere di andare in un certo luogo per vedere determinate cose, ma quando sono nella zona prescelta posso incontrare cose che non avevo previsto e che mi suscitano interesse, mentre quelle che avevo prescelto possono non essere poi così interessanti.
Certo, se faccio parte di un viaggio organizzato, non sarà possibile deviare dalle mete prestabilite, ma se sono autonomo potrò modificare il programma, assecondando i miei desideri del momento.
Uno dei rischi che corriamo nella nostra vita quotidiana è di predefinire con troppa precisione i nostri comportamenti e le nostre ricerche, senza prendere in considerazione le occasioni inattese che la vita ci fa incontrare. Spesso viviamo l'inatteso come un disturbo, come un fastidio, perché siamo concentrati esclusivamente sui nostri progetti iniziali. 
Il rischio vero è di perseguire l'ideale perdendo l'incontro col reale.
Per questo ogni tanto bisognerebbe andare in giro senza mete troppo precise, tenendo il cuore aperto alle possibili deviazioni che ci si possono presentare, che potrebbero aprirci la strada verso nuovi e inaspettati percorsi realmente trasformativi.

Certamente questa è una condotta che ci espone a dei rischi, perché si va realmente aldilà del conosciuto e delle abitudini, ma è proprio in una regione diversa da quelle conosciute o immaginate, che si possono fare nuove esperienze. E d'altra parte, il non essere aperti a prendere seriamente in considerazione l'inatteso ci espone al rischio reale di non fare mai esperienze veramente nuove.

mercoledì 22 maggio 2013

il mondo non esiste

Il mondo non esiste.
Esistono tanti mondi diversi, ciascuno di noi vede e percepisce il mondo in modo diverso dagli altri.
Per qualcuno il mondo è privo di senso e senza speranza, per altri è pieno di persone interessanti, di passioni e di piacere.
Tra questi due estremi ci stanno miliardi di sfumature personali, che tutti i giorni si modificano come fuochi d'artificio, perchè siamo in tanti ad avere l'umore un po' cangiante: oggi vediamo tutto nero, domani grigio, e domani l'altro magari rosa, mentre il mondo resta sempre uguale.
Quindi non è corretto vivere in basi a dogmi, accettare a priori ciò che dicono gli altri, come se il mondo fosse uguale per tutti, come se tutti vivessero nello stesso mondo allo stesso modo, come se la verità di qualcun altro dovesse necessariamente essere anche la nostra.

martedì 14 maggio 2013

un ragazzino autistico

La scorsa settimana aspettavo mio figlio all'uscita da scuola, quando ho visto arrivare un ragazzino di 11-12 anni che era per mano ad un educatore, il quale lo ha consegnato al padre, che lo ha accolto con un gran sorriso e con le braccia tese. Il ragazzino ha evitato le braccia del padre ed è andato a piazzarsi immobile di fronte alla rete metallica di un campetto di calcio, in quel momento completamente deserto.
La cosa mi ha colpito e ho guardato meglio il ragazzino. Il suo volto era bellissimo: biondino, ricciolino, un amore. I suoi occhi fissavano un punto vuoto a mezz'aria, verso il cielo oltre la rete. 
E' rimasto così, col corpo immobile e l'aria sperduta, ma determinato a fissare quel punto nel cielo, finché suo padre lo è andato gentilmente a prendere e ha cercato di dargli la mano, cosa che il ragazzino ha rifiutato, pur seguendo il padre verso casa.
Così se ne sono andati via, uno a fianco all'altro, ma senza toccarsi, senza guardarsi e senza parlarsi.

Ho capito che era un ragazzino autistico.
Io non mi sono mai occupato professionalmente dell'autismo, non mi è mai capitato, ma quel ragazzino visto per pochi minuti all'uscita da scuola mi è rimasto dentro nel cuore e man mano che passa il tempo il suo ricordo non sbiadisce.
Premesso che il papà era gentilissimo e dolcissimo, viene da chiedersi: ma cos'è questo autismo, questo stare chiuso in una bolla di sapone, in un mondo tutto tuo da non condividere con nessuno, nemmeno con chi ti vuole bene?
E' una patologia che professionalmente mi attira moltissimo e una sfida difficilissima: riuscire a trovare il modo per comunicare, per instaurare un dialogo, per bucare e fare scoppiare quella bolla di sapone che isola dal mondo degli altri. 

lunedì 6 maggio 2013

comizi d'amore

Pier Paolo Pasolini andò in giro per l'Italia negli anni '60 intervistando persone di ogni ceto sociale sul tema dell'amore e del sesso, argomento quest'ultimo quasi tabù per l'epoca.
Con la naturalezza che lo contraddistingueva, faceva domande semplici e dirette. Le risposte raccolte offrono un quadro veritiero della realtà sociale di quegli anni che, a mio parere, è estremamente interessante anche a 50 anni di distanza.
Qui sotto trovate un piccolo frammento di quel lavoro, raccolto nella campagna modenese (su youtube alla voce Comizi d'amore Pasolini potete trovare molto altro materiale).
Sono molto curioso di sapere cosa ne pensate.


giovedì 2 maggio 2013

comunicare con naturalezza



Qualche tempo fa mi è capitato di parlare con alcune ottime persone colte e sensibili.
Una di loro si era meravigliata perché io avevo risposto con estrema franchezza ad un comune conoscente; poiché stava facendo un corso di comunicazione non violenta, le sembrava che le mie parole fossero state troppo dirette e in contrasto con alcuni modelli di comunicazione efficace che aveva imparato frequentando alcuni corsi.
Ascoltandola, ho provato un po' di insofferenza, anche perché la persona cui avevo detto quelle cose non aveva reagito negativamente  e il mio intento era stato proprio quello di parlargli senza mezze misure per indurlo a riflettere su alcuni suoi problemi che egli aveva raccontato.

In generale, penso che una comunicazione che si fonda troppo sull'osservazione di regole formali, possa nuocere alle relazioni, perché tende ad ingessarle, a favorire il controllo dell'espressività a scapito della naturalezza e dell'ascolto profondo di se stessi e degli altri.
Temo che le nostre relazioni soffrano spesso di un eccesso di controllo razionale al quale a volte si alterna un'incontrollabile, violenta e prorompente fuoriuscita di sentimenti.
Spesso scambiamo la forma per la sostanza e bisticciamo a lungo su inutili questioni formali, senza comunicarci l'essenza delle cose.
Diventiamo allora asettici, sterili, non ci infervoriamo per le cose essenziali, non trasmettiamo calore: tendiamo ad essere freddini, distaccati, un po' estranei e troppo concentrati sul nostro comportamento nella relazione.
Non dico che ci si debba scannare, non mi piacciono le sceneggiate televisive alla Sgarbi; il rispetto per l'altro non deve mai mancare, ma il calore umano, la partecipazione del cuore, l'interesse genuino per l'altro, sono, a mio avviso, elementi necessari in una relazione che non sia superficiale e che abbia un minimo di senso.
L'amore, l'amicizia, le relazioni tra gli esseri umani, richiedono di offrire agli altri il distillato della propria umanità in presa diretta, mantenendo sempre attivo l'ascolto delle reazioni dell'altro, per modulare correttamente l'esposizione dei nostri pensieri e sentimenti, evitando inutili esagerazioni.    

giovedì 25 aprile 2013

simboli: l'automobile

A volte mi capita di pensare che il mio lavoro consista nell'arte di osservare i pezzi che compongono la psiche dei miei pazienti (oltre che i miei), cercandone il senso, come un meccanico che osserva un motore e controlla i rapporti tra le varie parti che lo compongono: guarda se c'è qualche tubo scollegato, qualche guarnizione che perde, qualche piccola crepa che fa perdere i liquidi.
I pezzi della psiche si chiamano: amore, amicizia, relazioni, autostima, lavoro, futuro, divertimenti, genitori, figli, coniugi, amanti, sensi di colpa, ansie, paure, ossessioni, sesso, nostalgie, invidie, depressioni, dubbi, certezze, cambiamenti, gioie, trasformazioni, giovinezza, vecchiaia, malattie, vita e morte.

Spesso è l'usura, unita alla mancanza di manutenzione, che crea i problemi più gravi.
A volte mi chiama qualche vecchio paziente che aveva concluso positivamente il suo lavoro con me e a distanza di anni mi dice:"dottore, avrei bisogno di venire a fare un tagliando...".

Che automobile siamo? Come siamo fatti? Come funzioniamo, ma soprattutto: chi è che guida?
Un buon autista deve conoscere il proprio mezzo, deve sapere che potenza ha il motore, che forza hanno i freni e quanto carburante c'è nel serbatoio, perché quando è in riserva deve andare a fare rifornimento.
La carrozzeria è forse la parte meno importante, a patto che stia insieme, che non sia troppo arrugginita e che non si perdano i pezzi per strada.

Negli anni del boom economico ogni auto era personalizzata: amuleti vari che pendevano dallo specchietto, foto dei figli appiccicate al cruscotto, motori truccati, adesivi colorati sulla carrozzeria. Oggi è solo la grandezza e la potenza che distinguono le auto: sono quasi tutte bianche o color argento o scure.
E la formula 1! Le corse per arrivare primi, per vincere le gare. A costo di lavorare come matti tutto l'anno per rosicchiare qualche centesimo di secondo all'avversario. La formula 1 è arrivata nei paesi da occidentalizzare prima della politica: il circuito di Ungheria ai tempi della caduta del muro di Berlino, oggi il primo circuito in Cina e nel Bahrein. A portare la nostra concezione della vita: la vittoria e la velocità.

Ci sono quelli che cambiano l'auto ogni tre anni e quelli che la tengono fin che va, anche se non è più di moda, anche se è vecchia. Se ne prendono cura a volte in modo un po' ossessivo: la tengono controllata, pulita, in ordine, le vogliono bene, le sono affezionati. Commercialmente non vale nulla; se gliela scassano, l'assicurazione non gli dà una lira, ma per loro è importante. Un po' come nelle relazioni: c'è chi cambia spesso partner e chi resta fedele a uno solo, anche se invecchia e perde qualche colpo.

C'è la guida prudente, la guida sportiva, ci sono quelli che vanno come lumache e quelli che sfrecciano rischiando la propria incolumità e quella degli altri.
C'è chi è distratto, chi va fuori strada, chi slitta, chi sbanda, chi va al limite delle possibilità, chi si fa del male perché, magari inconsciamente, è proprio quello che cerca.
L'auto, davvero, simbolo del nostro modo di vivere la vita.