giovedì 25 aprile 2013

simboli: l'automobile

A volte mi capita di pensare che il mio lavoro consista nell'arte di osservare i pezzi che compongono la psiche dei miei pazienti (oltre che i miei), cercandone il senso, come un meccanico che osserva un motore e controlla i rapporti tra le varie parti che lo compongono: guarda se c'è qualche tubo scollegato, qualche guarnizione che perde, qualche piccola crepa che fa perdere i liquidi.
I pezzi della psiche si chiamano: amore, amicizia, relazioni, autostima, lavoro, futuro, divertimenti, genitori, figli, coniugi, amanti, sensi di colpa, ansie, paure, ossessioni, sesso, nostalgie, invidie, depressioni, dubbi, certezze, cambiamenti, gioie, trasformazioni, giovinezza, vecchiaia, malattie, vita e morte.

Spesso è l'usura, unita alla mancanza di manutenzione, che crea i problemi più gravi.
A volte mi chiama qualche vecchio paziente che aveva concluso positivamente il suo lavoro con me e a distanza di anni mi dice:"dottore, avrei bisogno di venire a fare un tagliando...".

Che automobile siamo? Come siamo fatti? Come funzioniamo, ma soprattutto: chi è che guida?
Un buon autista deve conoscere il proprio mezzo, deve sapere che potenza ha il motore, che forza hanno i freni e quanto carburante c'è nel serbatoio, perché quando è in riserva deve andare a fare rifornimento.
La carrozzeria è forse la parte meno importante, a patto che stia insieme, che non sia troppo arrugginita e che non si perdano i pezzi per strada.

Negli anni del boom economico ogni auto era personalizzata: amuleti vari che pendevano dallo specchietto, foto dei figli appiccicate al cruscotto, motori truccati, adesivi colorati sulla carrozzeria. Oggi è solo la grandezza e la potenza che distinguono le auto: sono quasi tutte bianche o color argento o scure.
E la formula 1! Le corse per arrivare primi, per vincere le gare. A costo di lavorare come matti tutto l'anno per rosicchiare qualche centesimo di secondo all'avversario. La formula 1 è arrivata nei paesi da occidentalizzare prima della politica: il circuito di Ungheria ai tempi della caduta del muro di Berlino, oggi il primo circuito in Cina e nel Bahrein. A portare la nostra concezione della vita: la vittoria e la velocità.

Ci sono quelli che cambiano l'auto ogni tre anni e quelli che la tengono fin che va, anche se non è più di moda, anche se è vecchia. Se ne prendono cura a volte in modo un po' ossessivo: la tengono controllata, pulita, in ordine, le vogliono bene, le sono affezionati. Commercialmente non vale nulla; se gliela scassano, l'assicurazione non gli dà una lira, ma per loro è importante. Un po' come nelle relazioni: c'è chi cambia spesso partner e chi resta fedele a uno solo, anche se invecchia e perde qualche colpo.

C'è la guida prudente, la guida sportiva, ci sono quelli che vanno come lumache e quelli che sfrecciano rischiando la propria incolumità e quella degli altri.
C'è chi è distratto, chi va fuori strada, chi slitta, chi sbanda, chi va al limite delle possibilità, chi si fa del male perché, magari inconsciamente, è proprio quello che cerca.
L'auto, davvero, simbolo del nostro modo di vivere la vita.


sabato 20 aprile 2013

equilibrio/eccessi

Equilibrio e eccessi: due parole inconciliabili? Non credo.
Ci può essere un eccesso anche nella virtù e non credo che sia buono, come qualsiasi eccesso unilaterale.
Certo, l'equilibrio sta nel mezzo, ma non vuol dire che si debba sempre stare fermi a metà strada.
Voglio una vita spericolata cantava Vasco Rossi, ma a volte fa piacere anche stare un po' tranquilli.
L'equilibrio è fatto di tanti a volte... diversi. E' poter interpretare ruoli diversi, è poter essere bianco ma anche nero, grigio e di mille colori.
Eccedere con equilibrio è possibile? Sì, e significa arrivare fino al limite dell'irreversibilità, dell'univocità, della perdita di contatto con tutto il resto del mondo e con le possibilità diverse. Sperimentare senza annullarsi od omologarsi.

L'eccesso ripetuto è alla lunga monotono, può diventare moda, banalità, standard, oggetto di consumo.
Quando si impara ad andare in bicicletta, si sbanda un po' a destra e un po' a sinistra, prima di trovare l'equilibrio. Ma questo equilibrio permette poi di andare dove si vuole, permette di accelerare, di rallentare, di fermarsi e ripartire, mica di andare sempre alla stessa velocità!

L'eccesso di pulizia è orribile, come lo è l'eccesso di sporco, ma se si sa stare nel pulito come nello sporco, forse si è più sereni.
Momenti di introversione, di solitudine che si alternano a momenti di estroversione, di tuffi nel mondo, possono essere sintomi di equilibrio, se non ci lasciamo sopraffare.
E così è la realtà del corpo, che chiede sonno e veglia, inspirazione ed espirazione, sistole e diastole: eccessi sì, ma solo fino a un certo punto, fino alla soglia dei parametri vitali.
Si può eccedere anche con la libido, ma solo fino a un certo punto.

Allora è solo un problema di non superare i nostri limiti, e i limiti sono diversi da individuo a individuo, da momento a momento. La soglia del limite può essere spostata attraverso l'allenamento, l'impegno, lo sforzo fisico e mentale.
Ma una cosa è certa: solo noi la possiamo conoscere, se ci ascoltiamo, se siamo consapevoli di noi stessi, se non ci buttiamo via per assomigliare o per piacere agli altri.

Credo che molte persone abbiano una vita poco soddisfacente perché cercano la vita nell'eccesso, sempre e a tutti i costi; pensano che l'equilibrio sia una noia mortale, ma sono vittime dello stesso equivoco di coloro che cercano costantemente di essere equilibrati perché hanno paura degli eccessi.
Forse normalità significa anche non avere paura né dell'equilibrio né degli eccessi, ma cercare di vivere anche gli eccessi con equilibrio: un equilibrio dinamico, che si modifichi sempre, che non sia mai perfettamente uguale a se stesso.
Spesso, quando si vive un eccesso, bisogna passare attraverso l'eccesso opposto per arrivare poi all'equilibrio. 




lunedì 15 aprile 2013

mysterium coniunctionis

In questi giorni sto preparando un seminario che si terrà alla metà di maggio: un gruppo di non più di dodici persone, che si incontreranno per due sere, condividendo pensieri, sentimenti, immagini, letture e sogni sul tema del maschile/femminile.
Mi ha molto colpito il fatto che Jung, dopo aver lavorato a lungo su questo tema negli ultimi anni della sua vita, scrivendo anche un libro molto complesso dal titolo Mysterium coniunctionis, si convinse che il rapporto tra maschile e femminile ha in sé appunto una grande parte di mistero.
Non è una conclusione banale, come non è banale dire che una cosa è misteriosa.
La nostra società non ama i misteri (se non sfruttati per avere più audience o vendere libri), e anche noi, volenti o nolenti, subiamo il fascino della chiarezza, delle certezze da raggiungere possibilmente in pochissimo tempo.
Ma solo la superficie delle cose è nitida: quello che c'è sotto è molto spesso più incerto e misterioso.
Non sto facendo l'apologia dell'esoterismo o del paranormale: sto parlando di animo umano, di complessità, di colori che si mescolano dentro di noi, creando forme e sfumature sempre nuove e inaspettate.

Cos'è maschile? Cos'è femminile? Cos'è questa spinta istintiva all'unione, alla realizzazione di una totalità? Ho la sensazione che parlare di maschile e femminile significhi in realtà parlare in generale dell'unione degli opposti, della loro integrazione in una totalità che li contenga entrambi, creando nuove forme di vita. E' un discorso teorico ma anche concreto, molto concreto.

Una mia paziente schizofrenica  mi ha detto che quando è nata sua figlia, le ha messo anche delle tutine azzurre, perché era un colore che le piaceva e secondo lei le stava bene, aggiungendo: ma perché i maschi non possono portare vestiti rosa? Il rosa può stare bene anche a un maschio.

Si può imparare molto da chi ha sofferto tanto nella vita al punto da diventare strano o folle, si può essere aiutati ad andare aldilà dei modelli abituali di ragionamento, a recuperare spazi di libertà di pensiero; e questo può sembrare un mistero per chi è abituato a dividere, a separare nettamente il bene dal male con troppa facilità, a rimanere fedele a quella nitidezza che permette di guardare solo la superficie delle cose.

E anche la salute mentale e la pazzia, forse, sono due opposti che dobbiamo cercare di integrare tra loro per vivere meglio la nostra vita.

mercoledì 10 aprile 2013

maturità/immaturità

Quando qualcuno usa l'appellativo di ragazzo o ragazza parlando di una persona di 40 o 50 anni, ho una forte sensazione di malessere e insofferenza.
Può darsi che io stia invecchiando, ma mi viene da dire che no, che a 40 o 50 anni una persona non è un ragazzo, che è bene che non lo sia e che se lo è, c'è qualcosa che non va nella sua vita.

La settimana scorsa una mia amica, reduce da una settimana di vacanze in un centro termale, mi raccontava di aver frequentato tante saune e bagni turchi dove, per ragioni igieniche, si entrava solo se si era completamente nudi, rimanendo stupita che quasi tutti i frequentatori  delle saune fossero senza peli in ogni parte del corpo, genitali compresi. La mia amica concludeva affermando che secondo lei questa era una riprova che anche nell'aspetto esteriore del corpo c'è una diffusa tendenza a voler rimanere bambini o ragazzini, per contrastare così l'età che avanza. Per inciso, crescono anche gli adolescenti che si vergognano dei peli che naturalmente cominciano a crescere.

Vorrei ricordare che il fondamento di base di tutte le nevrosi consiste proprio nel non accettare e godere degli anni che passano, cercando di ritornare indietro verso la giovinezza (o di fissarla per l'eternità), come i salmoni che vanno controcorrente.

Vedo sempre più bambini che sono spaventati all'idea di crescere e rimangono attaccati oltre misura ai genitori: ma i genitori che parte hanno in tutto ciò? Trasmettono ai figli il piacere del crescere per diventare infine autonomi o sono anche loro spaventati del tempo che passa e delle separazioni che incombono?

Si diventa genitori mediamente più tardi rispetto agli anni scorsi, ma credo che i bambini che hanno genitori avanti negli anni abbiano diritto ad avere come genitori delle donne e degli uomini adulti, non delle ragazze o dei ragazzi tardivi.

Il senso di responsabilità, la necessità di affrontare sacrifici se necessario, la relativizzazione di sè e l'ascolto e il rispetto dell'altro dovrebbero essere conquiste realizzate nella maturità. Sentendo e vedendo ciò che accade nelle nostre massime istituzioni verrebbe da dubitarne.

Maturità, parola che significa qualcosa di preciso. O non più?   

sabato 6 aprile 2013

il cocktail psicanalitico

Ho letto sulla Repubblica di ieri un articolo di Massimo Recalcati su una nuova serie televisiva in onda su Sky, dal titolo In treatment, ambientata nello studio di uno psicanalista (Sergio Castellitto).
Se non ho capito male, in ogni puntata si assiste ad una seduta dello psicanalista col suo paziente di turno. Il programma è un format americano e pare abbia avuto grande successo negli Stati Uniti.
Recalcati fa presente che nel programma non si parla mai né di sogni, né del passato dei pazienti, neanche di striscio: si parla solo dei problemi attuali del paziente di turno, come se il passato e l'inconscio non esistessero.
D'altra parte, il programma sembra soddisfare una curiosità vecchia come la psicanalisi: scoprire cosa succede in quella stanza, cosa viene detto e fatto tra analista e paziente, scoprire come può essere una relazione umana dove chi ascolta l'altro a fini terapeutici non si pone né come giudice, né come confessore, né come amico.
In realtà, nella stanza d'analisi succede qualcosa che riguarda esclusivamente le due persone che ci entrano: se succede qualcosa di terapeutico, ciò è dato dalla relazione, dall'alchimia che si crea tra le due persone presenti: cambiando uno degli ingredienti, il cocktail analitico avrebbe irrimediabilmente un diverso sapore e un diverso profumo. 
E' molto meglio che una persona non sappia niente di ciò che succede ad altri in quella stanza, perché potrebbe solo confondersi le idee e trovarsi ancor più nella nebbia.
Se qualcuno ha qualche curiosità personale e vuole esaudirla, non deve guardare cosa in quella stanza ci hanno fatto altri, perché sono cose che non lo riguardano, né nel bene né nel male; l'unica cosa da fare è entrarci per davvero in quella stanza. Ma può essere impegnativo, come è accaduto ad una persona che ho conosciuto, che andò da un analista perché era sicuro di non averne bisogno e voleva provarlo a se stesso in modo definitivo, dopodiché è entrato e uscito da quella stanza per parecchi anni, rivoluzionando completamente la propria vita.