giovedì 26 settembre 2013

identità o efficienza?

Charlie Chaplin nel film Tempi moderni
Il compito fondamentale di ciascun essere umano dalla nascita in poi è prendere coscienza della propria vera identità, per potere relazionarsi con gli altri e col mondo nel modo più autentico.
Fino a qualche decennio fa, ciò significava fondamentalmente due cose: da un lato, andare oltre la assoluta istintività della primaria condizione di natura e, dall'altro, difendersi dai principi morali troppo ristretti ed oppressivi: in termini psicanalitici, l'Io doveva trovare la propria identità barcamenandosi tra la istintività collettiva dell'Es e l'eccessivo rigore morale del Super-Io.
E' ancora valido oggi questo modello?
Nei suoi aspetti fondamentali è ancora valido, ma si è aggiunta una complicazione importante, perchè la nostra società dominata dalla tecnica, tende ad applicare le leggi della tecnica anche agli individui e alle relazioni tra le persone. Ciò significa che, così come una macchina deve funzionare e produrre al massimo delle sue possibilità, altrimenti non va bene e deve essere aggiustata o sostituita, nello stesso modo si è diffusa l'abitudine di considerare gli esseri umani in base alla loro funzionalità e produttività, non solo rispetto al mondo del lavoro, ma anche alla rete di relazioni umane ed affettive in cui sono inseriti.
L'uomo come la macchina, nel lavoro ma anche nelle relazioni affettive: se è efficiente va bene, altrimenti è malato o diverso, non funziona bene, con conseguente diminuzione dell'autostima.

Questo modo di considerare le persone, piano piano si è inserito nelle coscienze individuali e ci ha pesantemente condizionato. Per ovviare a ciò, sono nate un'infinità di tecniche che hanno lo scopo di farci diventare più efficienti nel più breve tempo possibile. Il rischio è però di concentrarsi esclusivamente sul cercare di diventare più efficaci, di fornire prestazioni all'altezza delle richieste e dei modelli che ci vengono proposti, smettendo di chiederci chi siamo veramente e come vorremmo cercare davvero di vivere per stare decentemente bene.

Questo discorso vale, naturalmente, anche per il corpo: chi non è all'altezza dei modelli che vanno di moda, tende a non essere apprezzato. Anche il corpo è diventato un corpo-macchina, che viene valutato e quindi amato in base alla quantità di prestazioni che fornisce. 
Il fatto che uno possa essere non proprio perfetto ed efficiente rispetto a qualche scala di valori fisica o psichica, diventa subito diversità, stigma, etichetta negativa, situazione da eliminare.

Il mondo, quindi, come una gara continua dove solo chi vince o arriva tra i primi è felice e realizzato, mentre gli altri vengono eliminati o marginalizzati, come tanti programmi televisivi ci insegnano quotidianamente.
Perciò credo che sia importante, oggi più che mai, cercare di riconoscere, valorizzare e amare la nostra vera identità fisica e psichica, non per isolarsi dagli altri, ma per cercare di portare avanti la nostra vita sulla base di quelle che sono le nostre caratteristiche più autentiche, anche se possono sembrare un po' diverse o meno produttive rispetto a quelle altrui.

  

lunedì 16 settembre 2013

amore o possesso?

E se non dicessimo più mia moglie o mio marito?
Se non usassimo più l'aggettivo possessivo per indicare il coniuge che amiamo?

Questa è la proposta provocatoria che Umberto Galimberti ha lanciato oggi nel corso della sua conferenza al Festival della Filosofia di Modena, rispondendo alla domanda di una donna che chiedeva cosa si può fare per fermare il femminicidio.
La sensazione di possedere l'altro, il sentirlo come cosa propria, invece di considerarlo una persona libera, padrona di sé stessa, è alla base delle violenze che si consumano quando l'altro non soddisfa i nostri desideri e reclama la propria autodeterminazione.

E' una proposta che forse fa fatica ad essere accettata a livello razionale, perchè siamo abituati da sempre a dire: mia moglie, mio marito, la mia fidanzata, ma anche mio figlio... Provate però ad immaginare se nessuno dicesse più mio o mia riferendosi alla persona che ama, se non si sentisse nessuno usare più queste parole. Chissà se a livello collettivo cambierebbe qualcosa nella percezione della relazione amorosa con l'altro?

E in ogni caso, anche solo ricevere questa provocazione e fermarsi un po' a rifletterci sopra, può fare un po' di bene. Quando ci arrischiamo ad andare con l'immaginazione oltre le regole di comportamento codificate razionalmente, allarghiamo i nostri orizzonti e possiamo immaginare di realizzare cambiamenti che migliorino il nostro e l'altrui modo di vivere.


martedì 10 settembre 2013

amare

Cosa si può dire di essenziale sull'amore?
Cosa significa amare?
Io credo che amare significhi soprattutto desiderare che una persona possa essere libera di essere ciò che è veramente e fare tutto il possibile affinché questa condizione si realizzi.
Poichè, come sappiamo, si deve amare il prossimo come sé stessi, ne consegue che la realizzazione pratica dell'amare dovremmo cercare di concretizzarla sia nei confronti degli altri che verso noi stessi.

Per poter amare bisogna conoscere l'oggetto d'amore, quindi la conoscenza di sé e degli altri è la conditio sine qua non per poter amare. Come posso amare all'interno di un rapporto concreto colui che non conosco? Come posso cercare di aiutarlo a diventare sé stesso se non intuisco la verità della sua essenza? Diversamente si corre il rischio, peraltro molto frequente, di amare l'oggetto delle nostre proiezioni, una sorta di film che ci facciamo su come l'altro è, che però non corrisponde alla realtà.

L'amore reciproco è pienamente compiuto quando entrambi gli amanti amano molto e con la stessa intensità sé stessi e l'altro.