giovedì 28 giugno 2012

i giochi degli adulti

I bambini hanno quasi sempre voglia di giocare. E gli adulti?
Gli adulti possono fare due tipi di giochi: il gioco libero e aperto all'immaginazione tipico dei bambini, oppure il gioco finalizzato al guadagno: giocano in borsa, giocano al lotto, alle slot-machines, scommettono sulle corse dei cavalli, giocano al casinò, ecc. Questo secondo tipo di gioco è generalmente patologico, tristissimo, fonte di ansia e talvolta di rovina.

Quanto al primo tipo di gioco, una delle cose più tristi che ci si possa sentir dire da un adulto è che sono tanti anni che non gioca più, perchè il gioco è una cosa seria, un bisogno profondo, un atteggiamento dell'anima, un'attitudine dello spirito, è la grazia che si incarna nella nostra vita quotidiana.

Se devo aspettare un'ora o due nella sala d'attesa del medico, posso annoiarmi mortalmente oppure posso iniziare a giocare contando le piastrelle del pavimento per scoprire quante sono, posso seguire le traiettorie di volo degli insetti che sono presenti nella stanza cercando di prevederle, posso osservare i comportamenti delle persone sedute di fronte a me fantasticando sui loro modi di vivere, posso scommettere che un paziente uscirà dalla stanza del medico dopo cinque minuti e controllare il risultato, ecc. ecc.

Si possono fare milioni di giochi: si può giocare con le parole, con i colori, con le forme, con la memoria, con i disegni, con la fantasia, coi ricordi, coi numeri, con gli oggetti. Si può giocare da soli, con gli amici, con i figli, con le persone cui si vuole bene, con gli sconosciuti.
Se si gioca insieme ad altri è fondamentale essere leali e rispettare le regole del gioco, non barare e non giocare coi sentimenti altrui.
La dimensione del gioco è creativa come quella del sogno o del teatro.
Chi diventa adulto senza salvare dentro di sè la dimensione del gioco, vive la vita in bianco e nero.
Ci possono essere momenti della vita in cui ci si deve difendere da lutti, tristezze e abbandoni e la voglia di giocare scompare, ma è importante che rimanga viva dentro di noi, senza spegnersi del tutto.


Esistono anche persone che giocano troppo, che non prendono nulla sul serio, che scappano dalle cose serie o impegnative della vita, come eterni fanciulli: il loro agire appare forzato, stereotipato, frutto dello sforzo continuo di tenere lontana la parte problematica della vita.

La normalità è costituita dalle persone che, pur affrontando con consapevolezza le prove che la vita pone loro davanti, mantengono vivo dentro di loro il desiderio di sorridere e di ridere, ritagliandosi i più ampi spazi possibili di curiosità, di avventura, di desiderio di giocare. Perchè il gioco è creazione continua, è imprevedibilità allo stato puro, è stimolo per l'invenzione, è apertura alla vita, senza sensi di colpa, senza falsi pudori, senza paura di apparire infantili.

Credo che chi, nonostante tutto, ha salvato dentro di sè l'atteggiamento giocoso tipico dei bambini, renda un buon servizio alle relazioni tra gli uomini e dia un buon contributo al miglioramento del mondo e al benessere di tutti.












sabato 23 giugno 2012

parabola

Ché sempre di questo in definitiva si tratta, quando va bene: nascere, crescere, giocare, gioire e soffrire, essere figlio, diventare adolescente poi adulto, rapportarsi con gli altri, col coraggio e la paura, avere un lavoro, una casa, a volte diventare genitore, raggiungere il massimo delle energie fisiche, sopravvivere alle separazioni e ai lutti, iniziare impercettibilmente a declinare mentre si diventa sempre più esperti della vita, vivere l'autunno della vita e per ultimo preparare il commiato affrontando il mistero della morte.

mercoledì 20 giugno 2012

tradimenti

Ci tradisce chi ha una sua immagine di noi e ci chiede di incarnare quell'immagine, accusandoci di farlo stare male se ci comportiamo in modo diverso;  lui ci ama o è nostro amico solo se noi corrispondiamo alle sue aspettative.

Ci tradisce chi non desidera che noi diventiamo ciò che siamo veramente.

Ci tradiscono i gruppi che valutano negativamente o guardano con sospetto le caratteristiche individuali dei propri membri, invece di accoglierle come possibilità di arricchimento e stimolo per la crescita della collettività.

Ci tradiamo noi stessi quando abbiamo delle intuizioni, delle percezioni chiare che ci vengono da dentro, ma le abbandoniamo per strada, dimenticandoci che sono esistite.

Ci tradiamo anche quando, per essere accettati o amati, ci adeguiamo troppo ai desideri degli altri, rinunciando ad esprimere ciò che siamo e che sentiamo vero.

sabato 16 giugno 2012

i tre porcellini

La fiaba che preferivo da bambino era I tre porcellini. Non mi stancavo mai di ascoltarla. Era la storia di tre porcellini, fratelli tra loro, che erano inseguiti da un lupo che voleva mangiarli: il primo si costruiva una casa di paglia e fango (vado a memoria), ma il lupo la buttava giù, il secondo se la costruiva di legno, ma il lupo distruggeva anche quella e finalmente il terzo, lavorando un po' più degli altri, costruiva una solida casa fatta di mattoni dove ospitava anche gli altri due fratelli in fuga, e quella casa il lupo non riusciva proprio a distruggerla, andandosene scornato.
I bambini sanno istintivamente molte cose fondamentali della vita, ad esempio che a volte è necessario impegnarsi molto e per bene per difendersi da chi li vuole mangiare.
Cosa possono essere in concreto questi mattoni che ci difendono dai lupi di cui parla la fiaba? In quanti modi diversi ci possiamo-dobbiamo difendere da chi non ci vuole lasciare vivere la nostra vera vita?
Per chi dice sempre sì, ad esempio, qualcuno di quei mattoni può simboleggiare dei no che ci salvano da coloro che ci vogliono far vivere la nostra vita a modo loro.
E i lupi, chi possono essere e in quanti modi concretamente ci possono mangiare? Facendoci venire sensi di colpa ingiustificati, ad esempio.
Credo che ciascuno di noi abbia il diritto psicologico naturale di potersi costruire la propria casa di mattoni e di abitarla in santa pace, lasciando entrare chi desidera e lasciando fuori chi ha intenzioni aggressive.

Una casa di mattoni come porto sicuro dove ritirarsi quando si è in crisi, quando si ha bisogno di riflettere, di ascoltare sè stessi, per poterne poi uscire con qualche idea più chiara e qualche certezza in più.
Penso a tutti coloro che vorrebbero avere una casa propria ma non possono e penso alla gioia di tante persone che finalmente riescono a realizzare il sogno di avere una propria abitazione.
E penso al terremoto, che è così terribile dal punto di vista psicologico, anche perchè porta con sè il rischio di privarci del luogo centrale della nostra vita, l'unico posto al mondo veramente nostro, dove ci possiamo sentire al sicuro.


martedì 12 giugno 2012

la ricerca della verità


Ho cominciato a leggere L'anima e il suo destino di  Vito Mancuso.
Nella prefazione l'autore dice una cosa che mi ha colpito molto. Si tratta di una frase breve e concisa, ma piena di significato:
"Credo nella comunione di coloro che cercano la verità"
Credo è un'affermazione forte, che mi piacerebbe sentire più spesso; penso sia importante credere in qualcosa che abbia un valore positivo, non importa in cosa, ma credere è importante.
Anche la comunione (dal latino communis unio=unione comune) è importante, soprattutto ai giorni nostri, quando tende a prevalere il soggettivismo più sfrenato e gli altri, i diversi da noi, sono considerati sempre più spesso in modo negativo a priori .
Ma la ricerca della verità è importante a patto che la si relativizzi, che sia la ricerca della nostra verità e, soprattutto, che non la si voglia imporre agli altri. Chi possiede questo concetto della verità è portato a darle valore in quanto propria, ma, nel contempo, riconosce agli altri il diritto di ricercare la propria verità, che può essere legittimamente diversa dalla sua.
E' questa l'idea di verità esplicitata da Vito Mancuso, il quale, a pag. 1 del medesimo libro, così si esprime:
L'interlocutore principale di questo libro è la coscienza laica, intendendo con ciò quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per se stessa e non per appartenere a un'istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perchè ne è profondamente convinta, e non perchè l'abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanto numerosi antipapi della cultura laicista.
immagine tratta da film
Insomma, dal punto di vista delle istituzioni, Mancuso si potrebbe definire una testa calda, (infatti nella Chiesa non lo vedono molto di buon occhio), ed è per questo forse che mi attrae, oltre che per la sua cultura, il suo rigore intellettuale ed il suo amore per la verità e la libertà. Strano a pensarsi per un teologo...
Ma ciò che più mi attrae è la sua idea di Dio, poiché il Dio di cui parla non sembra l'amministratore delegato di una multinazionale ma, piuttosto, un Dio  che alloggia dentro ognuno di noi, legittimamente percepito da ciascuno in modo diverso, personale e originale, ritagliato cioè sulla misura della sensibilità  di ogni singolo individuo. In questo concetto di Dio trovo una notevole somiglianza con il tipo di lavoro psicologico fondato sulla ricerca della propria verità e autenticità individuale di cui mi occupo.
Ecco, vedete, sono arrivato a pagina 1 e ho già scritto un post e non è assolutamente detto ch'io mi fermi qui: se emergeranno altre cose interessanti nel proseguimento della lettura vi terrò sicuramente informati.





giovedì 7 giugno 2012

alla bassa modenese, con affetto

Erano i primi anni '60, l'Italia era in pieno boom economico. Io ero un ragazzino nato e cresciuto in città e tutti gli anni in estate andavo qualche settimana coi nonni nella bassa modenese, dove abitavano i miei parenti. Mia nonna aveva avuto in eredità dai genitori una vecchia casa di campagna assieme a tre sorelle dai nomi oggi piuttosto desueti: Angiolina, Severina e Carolina, che abitavano tra Medolla, San Felice e Finale Emilia.
Alla stazione piccola di Modena prendevamo il trenino formato da due vecchie carrozze che in un'ora percorreva traballando 30 km, attraversando un paesaggio fatto di campi coltivati, filari di pioppi, piccoli canali e case sparse. La bassa era veramente bassa; tutto era basso: la terra, faticosa da coltivare e anche le case rurali, quasi tutte ad un piano.
La casa di mia nonna era a Rivara, una piccola frazione a tre km da San Felice, dove c'era la stazione e dove noi scendevamo dal treno: da lì, con le valigie in mano, dopo la partenza del treno, percorrevamo a piedi i binari deserti sotto il sole bollente di luglio.
A Rivara non c'era niente: solo la chiesa, quattro case e la bottega, dove chi non aveva soldi comprava gli alimentari segnando l'importo sul libretto, per pagare poi a fine mese o quando poteva. L'unico svago era l'8 settembre, quando c'era la sagra di paese e alla sera, vicino alla chiesa, c'era qualche bancarella e si facevano i fuochi artificiali. Per il resto, silenzio, caldo, grilli, mosche e zanzare.
Vicino alla casa c'era il macero, una pozza d'acqua dove si lavorava, con grande fatica, la canapa. Di giorno si stava seduti a chiacchierare nell'aia, proteggendosi dalla canicola sotto l'ombra di una quercia, mentre verso sera la morsa del caldo si allentava e iniziavano a comparire sciami di zanzare, per difendersi dalle quali c'era il flit, un repellente a base di DDT, che ancora non si sapeva essere cancerogeno.
Dopo cena ci si trovava a casa di una zia, dove le figlie lavoravano a cottimo con le macchine da maglieria, mentre in sottofondo una vecchia radio a valvole suonava ogni genere di musica che nessuno ascoltava. I grandi chiacchieravano tra loro, mentre noi bambini giocavamo e ridevamo.
Ricordo un cugino, di quattro anni più vecchio di me, che per impressionarmi e rimarcare la sua superiorità, a volte si sdraiava per terra e beveva tutto d'un fiato una bottiglia intera di latte appena munto, mentre altre volte mangiava grani di pepe nero masticandoli come fossero noccioline. Per me, bambino di città, era davvero troppo, dovevo riconoscerlo: non potevo competere con lui.
Nel pollaio c'erano le galline (e a noi bambini era concesso ogni giorno a turno di salire la scaletta di legno e andare a levare le uova), nella stalla c'erano le mucche e nel cius (il chiuso) c'era il maiale, che veniva ucciso a gennaio col rito della pcarìa.
Mia zia Angiolina aveva un angolo tutto suo di cui andava orgogliosa: il suo piccolo giardino, dove mia nonna passava ore con lei ad apprezzare la bellezza delle rose e di tutti gli altri fiori.
L'acqua si prendeva dal pozzo, calando il vecchio secchio di legno con la carrucola: un luccio che nuotava dentro all'acqua ne garantiva la limpidezza e la potabilità.
Fuori dalla casa c'era ancora, anche se ormai in disuso, il vecchio bugigattolo che fino a pochi anni prima serviva per espletare i bisogni corporali.
Dietro alla casa c'erano i campi, con le carrate, lungo le quali correvano i filari d'uva, che andavo a spizzicare goloso.
Mio nonno mi faceva quasi tutti giorni uno zabaione con le uova fresche e lo zucchero; a volte aggiungeva un po' di marsala, ma di nascosto dalla nonna che non voleva.

La bassa era una zona depressa e furono dati incentivi fiscali a chi investiva in quell'area. Così, a partire dagli anni '70 la bassa ha cominciato a cambiare; ricordo quando a San Felice si insediò la prima fabbrica che lavorava la frutta, poi una azienda che produceva cartone ondulato. Nel giro di pochi anni si costituì un polo di aziende ceramiche a Finale, poi il biomedicale a Mirandola. Si cominciarono a costruire case nuove che trovarono presto compratori allettati dai prezzi relativamente bassi. Nel frattempo l'agricoltura diventava sempre meno interessante dal punto di vista economico. La geografia umana ed economica si trasformava, come si trasformava la società.

Oggi, che l'enorme palla da bowling del terremoto ha fatto strike, distruggendo con precisione chirurgica tutti i centri più importanti della bassa modenese, il mio pensiero ritorna all'origine, ai miei parenti degli anni '60, contadini forti ed onesti, lavoratori seri e instancabili, e mi dà la certezza che la popolazione della bassa ha nel suo dna le risorse cui attingere per rinascere e per superare questa grande tragedia. 

lunedì 4 giugno 2012

una serata normale

Foto di Ivan Ferrari
Sabato sera, tra una scossa e l'altra, sono andato a mangiare il pesce alla Festa del Pd al Parco Ferrari, insieme ad alcuni amici e relativi figli.
Non ne avevo molta voglia, ma ho fatto bene ad andarci.
E' stata una serata normale e di questi tempi, qui in Emilia, non è poco.
Il Parco Ferrari era un aerautodromo (un vastissimo spazio verde a due passi dal centro storico dove negli anni '50-'60 correvano le Ferrari e atterravano anche gli aerei da turismo); una parte di questo enorme spazio viene usato per la festa del Pd, che fino a qualche anno fa si chiamava Festival dell'Unità (da allora, oltre al nome, è cambiato solo il colore degli arredi, che prima era ovunque rigorosamente rosso, mentre oggi è prevalentemente bianco).
Abbiamo mangiato del buon pesce al ristorante Family, uno stand gastronomico capace di servire 1.600 persone in una sera, con 100 volontari addetti al servizio e alla cucina. Dopo cena mi sono messo su una sedia a fumare la pipa fuori dalla struttura in legno: davanti a me un vialetto ghiaiato dove passavano le persone, un grande prato verde dove giocavano bambini e tutt'intorno le luci e i rumori dei vari padiglioni: la balera con la musica latina, i volontari dell'Avis, lo spazio libreria, il bar coi tavolini all'aperto, i giochi gonfiabili per i bambini, ecc.
Ho visto passare persone di ogni età e colore: genitori che spingevano passeggini, mocciosi che correvano senza freno, gruppi di bambini che giocavano a palla, adolescenti felici di stare insieme in libertà, coppiette che camminavano abbracciate teneramente, anziani che passeggiavano guardandosi intorno lentamente, famiglie islamiche, pakistane, africane..
Ogni tanto dalla cucina usciva qualche volontario a fumarsi una sigaretta e non riusciva a trattenere qualche espressione di scontentezza sullo stato attuale della politica in Italia.
Ma lì, al ristorante Family, l'unico conflitto di interessi è stato quello del volontario-cuoco nostro amico che per la figlia seduta con la mamma al nostro tavolo, ha preparato una paella con un po' meno verdura e una salsiccia in più.
Mentre ero lì a godermi il fresco e la tranquillità che percepivo intorno, mi è venuto da pensare all'importanza che in questi giorni di terremoto ha una struttura e una organizzazione come questa, costituita esclusivamente da volontari.
Un enorme, libero e tranquillo luogo di socializzazione trasversale in tutti i sensi: per età, censo, idea politica o colore della pelle.
Mentre negli ultimi anni ero complessivamente deluso dal Festival, che mi sembrava sempre più un rito che si ripeteva stancamente uguale a sè stesso e privo di vitalità nuova, in questo sabato di terremoto l'ho rivalutato dal punto di vista sociologico e, nell'occasione, mi sono chiesto dove sono finiti i sociologi che qualche decennio fa imperavano (anche se noi giovani psicologi li prendevamo in giro ricordando che l'anagramma di sociologia è "ciò lo so già").
Da molti anni penso che psicologi, sociologi, antropologi e tutti coloro che si occupano degli aspetti umani della vita dovrebbero confrontarsi per arricchirsi a vicenda collaborando insieme, invece di rinchiudersi corporativamente nel proprio settore di competenza.
Pensieri così, stimolati da questa umanità che, impaurita dal terremoto, al Parco Ferrari aveva trovato uno spazio accogliente dove stare insieme agli altri (fratelli o compagni non importa), vicini, forse anche per farsi coraggio a vicenda.

sabato 2 giugno 2012

terremoto

Quando viene il tempo del buio
bisogna rincantucciarsi,

avvolgersi su se stessi,
stare in silenzio ed aspettare,
senza muovere un muscolo.
Bisogna solo aspettare che passi,
perchè non dipende da noi
e non ci possiamo fare nulla.
Bisogna mantenere intatte
tutte le energie e la voglia di vivere
e coltivare la certezza che
verranno tempi migliori.
Perchè la vita è troppo grande
per essere sempre indirizzata
secondo i nostri desideri.
A volte ci si riesce,
altre volte no:
queste sono le regole
ed è bene ricordarle sempre,
per non esagerare mai,
nè con la disperazione
nè con l'arroganza.